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Marzo 19, 2002 in Libri da Stefano Mola

Arnaldo Colasanti, “Gatti e scimmie”, Rizzoli, pp. 271, 12,39 Euro

28774(1)Un istituto professionale della periferia romana. Un professore di lettere. Una classe “naturalmente difficile” (come catturare l’attenzione, come trasferire, come leggere loro ad esempio “Rosso Malpelo”, come…). Fin dall’inizio lo sguardo del professore è sospeso tra l’osservazione malinconicamente affettuosa dei ragazzi, della loro vita in potenza, esplosiva, e lo sgretolamento interiore del suo ruolo, istituzionale e umano. Durante la riunione di inizio anno, il preside gli assegna il compito di preparare una lezione sulla poesia del Novecento a tutti i quinti riuniti. Il professore va in biblioteca, spulcia gli appunti raccolti nel corso della sua vita di passione totale per la letteratura e in particolare per la poesia. Ritornare a questi appunti significa rivedere la sua vita intera. Hanno così contemporaneamente inizio un viaggio nel suo passato doloroso, segnato da precoci lutti familiari, un percorso nella poesia del Novecento, una riflessione sul significato della poesia e sulla sua possibilità di rappresentare il mondo, una riflessione sul dolore, sul male, sull’improbabile significato dell’esistenza. Tutti questi fili si intrecciano strettamente, si caricano di rimandi, si alternano senza escludersi, si rispecchiano uno nell’altro.

A far da filo conduttore, la poesia di Caproni. La prima poesia che viene sezionata, implacabilmente ed amorosamente, è “Dietro ai vetri”, in cui il poeta ricorda la fidanzata Olga morta giovanissima. Il poeta separato da Olga è al tempo stesso separato dalla giovinezza e dalla sua promessa di felicità. Allo stesso modo, il professore è separato dalla sua giovinezza e dalla gioventù dei suoi allievi che vivono il momento in cui la vita esprime al massimo grado le sue potenzialità, le sue aspettative. Un momento però non privo di ombre: intravedendo tutto quello che potrebbe essere, irrimediabilmente si allarga l’ombra di quello che non sarà. Di qui la ricerca, disperata, ormai disillusa, di un senso, che sembra risolversi nella constatazione del vuoto e del nulla (“Sono avvilito per questa vita che mi prende e mi dissolve”). Ricerca costretta ad infrangersi contro lo scoglio del male: “A volte credo che il male sia qualcosa di sovrumano – la nausea che non permette più niente, nemmeno un pensiero”, fino a sfiorare la lontananza da Dio.

Il professore è separato dalla sua giovinezza e vacilla anche di fronte alle sue passioni, alla sua passione totale per la letteratura. Impotente e al tempo stesso potentissima: impotente a risolvere positivamente la ricerca di un senso, e al tempo unico strumento di rappresentazione della condizione umana. La parola poetica si confronta con il bisogno disperato di precisione, di comprensione, di classificazione (“la cosa che meno ci riesce è quella che vorremmo di più: distinguere, classificare, comprendere” [pag. 186]): un compito di fronte al quale si infrange come un’onda su uno scoglio, ma che proprio come un’onda che eternamente ritorna allo scoglio, riesce a darne la migliore descrizione possibile. Con la speranza che, proprio come l’onda che alla fine modella lo scoglio, si possa dire “Non so cosa ho fatto di tutto quello che ho letto: forse nulla mi ha salvato. O forse no: perché davvero (e come non crederci?) i libri non muovono il mondo ma lo guidano, sono desideri silenziosi: essi stessi il più grande mistero del mondo” [pag. 184]

Così, questa passione fortissima, totale, per la parola che si fa libro, narrazione, poesia, interrogazione sul mondo, non ha soltanto un risvolto esistenziale, non è solo sgomento di fronte a “la necessità di domandarsi cosa sia la vita una volta che la vita sia spoglia di tutto” [pag. 186]. Si fa passione civile, sentimento profondissimo di patria, nel suo senso più alto di bene comune. È difficile trovare delle parole migliori di quelle di Colasanti stesso, quando dice: “Se oggi abbiamo un compito è quello di ripensare con tutta la forza dell’anima il senso dell’insegnamento – la possibilità che un libro, in qualche modo, forse non so nemmeno più perché, educhi e serva alla vita. Questa nazione è malata di troppe cose: dimentica, però, che non guarirà mai se metterà ancora da parte l’urgenza di un’educazione reale, l’importanza di un sentimento comune, di uno sviluppo civile offerto per davvero a ogni cittadino” [pag. 224]. Un compito difficilissimo, per l’insegnante: “un uomo ogni giorno più vecchio gira in mezzo a dei ragazzini ogni anno sempre uguali: loro sedicenni o quindicenni per tutta la vita”, minato dalla timore che ormai ci sia una “divaricazione tra la lingua e le città in cui viviamo”, che sia “crollato il sentimento delle cose, ancor prima di una ragione politica o ideologica”.

E tutto questo nel lento scorrere del tempo verso il momento di questa lezione. Verrà poi tenuta questa lezione? Non importa tanto qui raccontare la fine del libro: implicitamente, la lezione ci resta, è libro stesso. Un libro che, a voler condensare in una sola frase, è un atto d’amore. Un amore struggente, per la giovinezza, per la poesia, alla fine per la vita stessa, tragicamente segnato dall’incombenza del nulla e della morte. Come tutti gli amori chiede molto a chi lo accoglie: il linguaggio è denso, ricchissimo, spesso poetico, e al tempo stesso capace di straordinari scorci di realtà (ad esempio la scena della metropolitana, da pag. 119 in avanti), di equilibrismi strepitosi. Un amore che vale la pena di essere vissuto.

di Stefano Mola