Lo scrittore Platania parla del libro “Buon lavoro” a Traspi.net

Aprile 7, 2006 in Libri da Sandra Origliasso

Titolo: Buon lavoro. Dodici Storie a tempo indeterminato
Autore: Federico Platania
Casa editrice: Fernandel Editore
Prezzo: € 13,00
Pagine: 160

Platania_Buon lavoroLa casa editrice Fernandel ha pubblicato un libro interessante. Si intitola “Buon lavoro. Dodici storie a tempo indeterminato” ed è la risposta ai tanti libri che narrano di mobbing e di precariato. Si potrebbe aggiungere che il titolo fa il verso al noto “Buongiorno Pigrizia” della francese Corinne Mayer. Naturalmente in chiave ironica. Traspi.net vi propone l’intervista all’autore

Buon lavoro è un libro molto coerente sulla routine e l’insensatezza di certi lavori a tempo indeterminato. Quando e come è nata l’idea di mettere insieme tutte queste storie?

Negli ultimi tempi sono stati pubblicati molti libri dedicati al tema del precariato. Criticare questa forma neanche troppo occulta di sfruttamento è sacrosanto. Ma non per questo si deve smettere di affrontare in letteratura la realtà del posto fisso. Solo constatando la povertà umana della condizione impiegatizia si può capire fino in fondo lo stato davvero tragico dei precari, di questo sottoproletariato aziendale che non può vantare nemmeno quella povertà. Il lavoratore precario vede nel posto fisso la fine dei suoi tormenti, la conquista di un lido sicuro. Ma è davvero così roseo questo traguardo? Buon lavoro prova a dare una risposta a questa domanda.

In apertura di Buon lavoro citi una frase di un celebre gruppo degli anni ’70, gli Area: «L’estetica del lavoro è lo spettacolo della merce umana». Si può dire che questa frase sintetizza il progetto?

Uno dei titoli di lavorazione di Buon lavoro era proprio «Lo spettacolo della merce umana» e questo la dice lunga su quanto quella frase abbia pesato nello sviluppo della raccolta. Non è uno spettacolo quello a cui prendiamo parte come attori/spettatori quando siamo in ufficio? Gli ascensori, le telefonate, i monitor, i distributori di caffè, la fila alla mensa, il disordine sulle scrivanie. È innegabile che in tutto questo ci sia un’estetica che io trovo al tempo stesso squallida e sublime.

Nel tuo libro l’ambiente di lavoro risulta sempre ostile. Le macchine non funzionano, gli ascensori si rompono, le porte si incastrano. Insomma, il mondo circostante appare sempre in conflitto con la fisicità dei personaggi. Perché questa scelta?

Ma non è una scelta stilistica, è la realtà! A volte, quando vago per i corridoi dell’immenso palazzo dove lavoro, vedo me e i miei colleghi come corpi estranei all’interno di un organismo che sta attivando i suoi anticorpi per espellerci, neutralizzarci. L’ambiente di lavoro è sempre indifferente e a volte apertamente ostile nei confronti dell’umanità che lo abita. E lo è perché questa umanità impiegatizia di fatto ha ben poco di umano. Le macchine (computer, ascensori, telefoni, fotocopiatrici…) sono molto più consapevoli degli uomini e si rifiutano più spesso di questi di fare le cose stupide che gli vengono chieste.

Lo stile di scrittura che usi è molto importante per creare la giusta ambientazione. In Buon lavoro i dialoghi sono molto asciutti eppure del tutto realistici, così come le descrizioni dei luoghi e dei pensieri. Sembra quasi che tu abbia scelto un modo chirurgico di procedere, dove ogni piccolo dettaglio è importante per indirizzare la percezione del lettore.

Ammetto che c’è un’attenzione maniacale alla scelta delle parole. Mi sono ad esempio imposto di non usare mai certi verbi (come “rispondere” o “spiegare”) che contengono un senso positivo, di comunicazione che si compie, al di là del contesto in cui vengono usati. Questo perché per me il grande serraglio-azienda è il luogo supremo dell’incomunicabilità. Per quanto riguarda lo stile asciutto, i protagonisti delle varie storie li ho immaginati così: dipendenti che hanno appena subito un trauma e che – ancora sotto shock – raccontano ciò che è accaduto. Così è possibile leggere i racconti come deposizioni dove chi parla sta bene attento a ciò che dice, non dà giudizi di merito sugli accadimenti, ma si limita a riportare i fatti.

di Sandra Origliasso