Le meraviglie di Kentridge
Febbraio 15, 2004 in Arte da Sonia Gallesio
Mi piace molto l’idea dell’animazione associata a un senso di costante inadeguatezza…
[William Kentridge, 2003]
A partire da fine anni Ottanta, William Kentridge realizza i suoi fantastici cortometraggi grazie all’impiego di disegni mutevoli su carta. Alla luce delle recenti evoluzioni dell’arte contemporanea, è innegabile che la sua possa essere considerata una metodologia sperimentale e controcorrente, di rottura. Tuttavia, appare anche palese come essa abbia ben poco a che fare con un intento innovativo inteso in senso letterale, data la sua rintracciabilità negli ambiti delle primissime ricerche in materia di animazione e cinematografia.
Nell’era governata dal digitale, difatti, la tipicità dell’intervento di Kentridge sta proprio nella netta e vigorosa contrapposizione all’utilizzo delle tecnologie più all’avanguardia, causa diretta, peraltro, della consumabilità e della vorticosa velocità dei messaggi e degli impulsi mediatici. Il suo modus operandi si fonda sulla creazione di serie di disegni a carboncino e pastello, ciascuno dei quali è sottoposto a sequenze di cambiamento, grazie a progressive cancellature e successive modificazioni segniche.
Definita dallo stesso autore “cinematografia dell’età della pietra”, appunto perché rappresenta a tutti gli effetti una forma di animazione povera, questa tecnica tradisce la necessità di sottrarsi ad una spettacolarizzazione della memoria facile e scontata, in favore di un ritorno alla riflessione e alla consapevolezza.
La scelta dell’artista di usare un linguaggio insieme figurativo e narrativo, è compiuta al fine di gettare un ponte che possa congiungere il mondo interiore dell’individualità alla realtà esterna. In virtù della sua connotazione oggettiva, difatti, un approccio di tipo documentaristico potrebbe generare nello spettatore una partecipazione distaccata e marginale. Al contrario, attingere alla dimensione della quotidianità favorirebbe un coinvolgimento di tipo emotivo consentendo, altresì, un confronto più proficuo ed incisivo.
Invece di essere originati dalla successione di migliaia di diversi disegni, come nell’animazione tradizionale, i film di Kentridge sono costituiti da centinaia di istanti di elaborazione di un ridotto numero di figurazioni – delle quali, in merito a ciascuna scena, alla fine dell’intero processo rimane solo quella conclusiva.
Questa singolare modalità, come spiega Christov-Bakargiev, determina “una forma aperta di disegno processuale, che tiene conto del tempo che scorre, un disegno che non può mai essere definitivo”, e dunque rivela una significativa disposizione al cambiamento, un atteggiamento positivo nei confronti delle potenzialità dell’incertezza, del non-definito.
Data l’impossibilità di rendere totalmente invisibili le cancellature apportate, il processo di esecuzione delle immagini rimane rintracciabile. Le tracce dei segni rimossi rappresentano idealmente una sorta di stratificazione della memoria – ovvero il permanere del passato nella mente, nonché la sua influenza sulla percezione e la comprensione.
Per Kentridge, poi, l’atto del cancellare si fa emblematico di una duplice concezione, strettamente legata alla realtà sociale attuale: da un lato è una metafora della perdita della memoria storica, di quella propensione comune a dimenticare ingiustizie e sopraffazioni, e dall’altro è risultante spontanea dell’esigenza di mettere in discussione le convinzioni e i preconcetti alla base di ogni umana interazione.
di Sonia Gallesio