L’Amico di Famiglia di P. Sorrentino
Novembre 23, 2006 in Cinema da Marcella Trapani
Il cinema di P. Sorrentino si può definire “il cinema del laido, del brutto dello sporco” sia fisico che morale.
Il protagonista, anche nel film L’Amico di Famiglia, è un essere estremamente sgradevole, Geremia de’ Geremei (G. Rizzo), detto “Cuore d’Oro”, un settantenne “brutto, sporco e cattivo”, che, dietro la facciata di un tranquillo lavoro di sarto, nasconde una lucrosa attività di strozzino. Interessi al 100% della cifra prestata ma solo su piccole somme, come gli ha insegnato l’altrettanto sgradevole mamma (L. Bindi). La signora giace perennemente immobile su un letto dal quale detta ordini e dispensa consigli al figlio su cosa fare e cosa non fare. I due vivono in uno stato di miseria, in una casa oscura e fatiscente, mentre Geremia accumula in banca il frutto del suo “lavoro” di usuraio.
Il paese in cui è ambientata la storia è facilmente riconoscibile come Sabaudia, cittadina creata da Mussolini negli anni ’30 all’epoca delle bonifiche delle paludi dell’Agro pontino. Le piazze e le architetture di stile fascista aggiungono angoscia ad una trama esistenziale di per sé già molto cupa.
Ma anche in L’Amico di Famiglia, come già in Le conseguenze dell’amore, un fatto imprevisto (“Non confondere l’insolito con l’impossibile”) arriva a sconvolgere la vita del protagonista, l’amore per Rosalba (L. Chiatti), una ragazza dall’aria angelicata ma dal carattere deciso, i cui genitori si rivolgono allo strozzino per chiedere un prestito per le spese del matrimonio della figlia. Quest’ultima si rivelerà ancora più immorale di Geremia, quando gli permetterà di averla sessualmente in cambio di una riduzione del debito contratto dai suoi genitori e in seguito dal ruolo di vittima trepidante passerà a quello ben più prosaico di imbrogliona: infatti con l’inganno e con la complicità dell’unico uomo che Geremia credeva suo amico, un aspirante cow-boy che vive in una roulotte, interpretato da F. Bentivoglio, lo deruberà di tutti i soldi che l’usuraio conservava gelosamente nella sua cassetta di sicurezza.
Geremia vive però la sua bruttezza con presenza di spirito. E’ miserabile, ma un miserabile intelligente, prodigo di citazioni pseudo-colte, tratte dal Reader’s Digest, e non privo di una certa autostima, a cui G. Rizzo presta la sua magistrale maschera di caratterista del teatro partenopeo. E comunque nella sua miseria non è peggiore delle persone che si rivolgono a lui pur disprezzandolo e reputandosi superiori. Anzi, questo ometto claudicante, dal braccio ingessato, non si sa perché, e sempre con un sacchetto di plastica sotto il braccio, funge da lente di ingrandimento per mettere a nudo le miserie morali e materiali altrui, meno ostentate ma forse peggiori delle sue.
La forza del film sta tutta nell’ambiguità dei personaggi, del protagonista in primis, ma anche degli altri che difficilmente rivelano la loro nefandezza, come invece fa Geremia sin dalle prime scene.
Sorrentino cerca in una storia non comune l’essenza del suo cinema e in un personaggio brutto e infelice una scintilla di umanità che la bellezza e l’armonia, a suo parere, non possiedono. Lo fa utilizzando un linguaggio cinematografico perturbante che ricorda a tratti il cinema visionario di L. Buñuel e che in ogni caso non può lasciare indifferente lo spettatore. Una scelta che può non essere condivisibile o risultare emotivamente disturbante ma che di sicuro denota un certo coraggio e una lodevole volontà di suscitare il dibattito. Il che in tempi di reality> e di così scarsa riflessione rappresenta un notevole sforzo.
di Marcella Trapani