Intervista a Vig, il disegnatore di Brendon e di Mayapan
Ottobre 28, 2007 in Arte da Redazione
La tecnica, l’arte e il mestiere di un grande fumettista italiano: Joseph Viglioglia. Parte seconda
Toglimi invece una curiosità. Quando un disegno o una tavola proprio non ti vengono, o per la posa, o per il soggetto, come ti comporti? Usi dei lucidi, delle foto, fai copie dal vero?
No, di regola io non uso alcun tipo di espediente. Se una tavola non mi convince, “la lascio riposare fino al giorno dopo” come diceva Breccia. È un consiglio che serve, aiuta a distaccarsi dal problema e a rivederlo con mente più fresca appunto il giorno dopo. Io tendenzialmente disegno già tutto su tavola e, a parte gli studi sui personaggi, non faccio schizzi preparatori. Valuto l’ingombro delle masse come ti ho detto prima e poi proseguo. Persino gli studi all’inizi mi sembravano una perdita di tempo. Invece poi ho capito che è di grandissimo aiuto, soprattutto quando disegni un primo volume. A quel punto si hanno così tanti problemi da risolvere, che uno non può e non deve più preoccuparsi quanto è lunga la ciocca di capelli di un personaggio, se ha l’anello al dito sinistro o a quello destro, o cose di questo genere. Quello lo si è già deciso negli studi, perché poi bisogna muovere tutto il complesso dei particolari. Ed è il problema tedioso di sempre, di quegli autori non molto esperti che presentano agli editori delle pin-up splendide, completamente rifinite, con dettagli maniacali. Poi quando devono muovere il personaggio a 360° diventano matti e perdono forza. In un fumetto… beh, lì è un’ampliatura, lì davvero bisogna governare quello è un caos totale.
Alcune posizioni sono difficili sia da immaginare sia da ricostruire. Tu come ti comporti nei casi più complessi?
A volte può capitare, sfogliando una rivista, di trovare un a fotografia che si sa già che potrà essere utile. Allora la metto da parte, anche se spesso e volentieri finisco per non usarla. Uso pochissimo il supporto fotografico, se non per ricerche molto particolari o iconografiche. Per dire, se devo disegnare una casa vittoriana, inglese, di campagna, non posso inventare nulla. Ed ecco che la fotografia diventa essenziale. Invece, per ciò che riguarda le posture, l’ideale per me è sempre la copia dal vero. Talvolta tiro giù solo una bozza, e non mi perdo nel dettaglio, perché tanto so come sono fatti una mano, un braccio, una piega, eccetera, e lo rifinisco dopo.
Da sempre disegnare bene le mani è un parametro di giudizio per giudicare la bravura di un artista. E bisogna dire che quelle che disegni sono molto energiche e belle. Come imposti il tuo lavoro in questo senso? Disegni prima la massa, il contorno e poi le rifinisci, oppure le realizzi già con le dita?
C’è molta energia nelle mie mani, è vero. Le curo molto anche perché sono convinto che siano alla base della recitazione di un personaggio. Un uomo esprime quasi tutta la sua sfera emozionale con il viso e con le mani, per questo sono molto preciso nel descriverle.
Il metodo che hai descritto tu, quello cioè di partire da un ingombro iniziale, è tipico dei pittori o di chi ha di fronte un manichino o un modello. Io, proprio perché lavoro pochissimo con le fotografie, devo essere capace di costruire una mano spazialmente come voglio e quando voglio. E ragiono, quindi, per elementi geometrici. Vedo la mano come un parallelepipedo a cui è agganciata una serie di sfere, che sono le giunture delle falangi, a cui sono collegati dei cilindri. E poi vado a rimodellare il tutto, come per la mano di un robot.
È un sistema molto comodo, soprattutto nel fumetto, dove per ogni storia bisogna disegnare migliaia di mani e la maggior parte nelle posizioni più assurde. Il tutto cercando di conservare la naturalezza…
Quando hai realizzato il tuo primo lavoro?
Nel 1992 ho iniziato a lavorare professionalmente, con una rivista che si chiamava “Moby Dick”. Era per ragazzi, e il target intorno ai 6-10 anni, ma il sostrato era sempre quello di fornire una cultura ecologica e ambientale. L’inizio ha coinciso con la fine del corso del fumetto che facevo a Milano, e infatti era intorno a maggio-giugno.
E la tua formazione prima di diventare fumettista?
Abbastanza classica. Ho fatto il liceo artistico e poi due anni di Scenografia all’Accademia.
Immagino che questo abbia influenzato non poco il tuo modo di concepire gli spazi. In generale hai sempre lavorato molto in questa direzione, ma in Mayapan hai proprio ricostruito un mondo anche architettonicamente.
A dire il vero, alla fine del Liceo era abbastanza indeciso se proseguire in Accademia o puntare su Architettura. Disegnavo infatti degli spazi molto creativi, spesso improponibili a livello matematico, ma sempre con grande piacere. Oggi, l’arredo e il contesto continuano a piacermi molto e applico quello che ho imparato nelle mie tavole a fumetti. E poi sono convinto che, al di là dell’aspetto decorativo, un ambiente descriva molto bene un personaggio. La scenografia rende credibile il personaggio. L’eroe più bello del mondo, inserito in un contesto debole o non plausibile, è a sua volta debole. Quindi mi sono abituato a trattare “l’ambiente” come un altro personaggio, con la stessa complessità, con mille risvolti comunicativi, con la stessa vitalità.
L’intervista continua…
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Intervista a Joseph Viglioglia parte terza
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Intervista a Joseph Viglioglia parte prima
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di Davide Greco