Immobilità

Agosto 15, 2004 in Racconti da Redazione

Silenzio. Sono passati due mesi da quando mia zia è morta. Aveva un volto composto, non un capello fuori posto. Sembrava dormire. La sera si è appisolata e non si è più svegliata. La mattina i grandi mi hanno detto che era scivolata nel silenzio perpetuo. Da quella mattina, ho paura di addormentarmi la sera perché temo di non risvegliarmi. Devo confessare che prima di adesso non capivo veramente di potersi dimenticare di aver vissuto. Silenzio. Perpetuo.

Ora giace sotto una spesa lastra di marmo. Probabilmente di notte esce per prendere aria. Magari si mette a danzare su tutti i sepolcri per ridestare tutti gli altri inquilini. Forse il baratro non esiste, mi stanno prendendo in giro. Nella notte del 30 novembre sono andata al cimitero non per profanare le tombe me per vedere cosa succedeva e mi sono addormentata sulla lastra marmorea e dura. Ho sognato una scala tutta bianca attraverso cui passavo appena. Ad ogni piano dovevo mangiare; l’inconveniente era che non potevo ingrassare altrimenti non ci sarei più passata. Come avrei potuto arrivare alla metà? In cima a questa lunghissima scalinata, contorta, c’era un caffè elegante che portava la dicitura: “Caffè dei filosofi”. A quel punto apparì un’ombra simile a quella di una persona conosciuta. A quel punto mi svegliai che c’era già il sole e il guardiano mi chiese cosa facevo lì, tutta sola. Mi perlustrò tutte le tasche, perché oggi giorno si assiste a cose ben peggiori come omicidi avvenuti ai danni dei genitori.

Immobilità. Il giorno in cui morì venne a farle visita un uomo. Non era sposata, nel senso che era vedova. Lui teneva in mano un ombrello azzurro e aveva deciso che era meglio farle visita. Nessuno capì mai veramente chi fosse. Poi venne anche sua sorella maggiore. Io la stimavo perché era una donna forte e decisiva negli equilibri della famiglia. Era l’autorità personificata.

Cadere. Una processione di ombrelli multicolori, non perfettamente intonati con l’umore, andava a farle visita prima che la chiudessero con il laser. Tutti. Tranne me. Guardavo la parete e ricordavo. Improvvisamente apparì un’altra bara. Potevo vederla io sola. La morta era lunga distesa. Era vecchia e il volto rugoso. In mezzo alle mani che pregavano controcorrente aveva un crocifisso. La croce, come una sorta di rito per affidare il caro estinto al paradiso magnifico. Intanto la verità è lontana credono. E invece la verità ha le sembianze di un uomo comune. Ognuno se la porta addosso per il solo motivo che ce l’ha dentro. Non ho versato una sola lacrima per quel corpo che sembrava immutabile. Eppure aveva qualcosa di tragico.

Movimento. Chiusa la cassa, se la caricarono sulle spalle trascinandola come un sacco di aghi. La riposero nella macchina sbocciata di mille varietà di fiori e negozi in competizione per la corona più bella. Mio padre ha un negozio di fiori. Famosissimo. Il pandemonio dal cielo. È l’ultimo temporale estivo.

Trasparenza. Ci sono tutti per l’occasione, persino mia madre. Ci sentiamo uniti, come una famiglia, quando in realtà non lo siamo più. Mi affianco a lei estraniata. Intanto la bara è stata parzialmente sfilata dal carro e stiamo osservando alcuni minuti di silenzio. Il silenzio perpetuo. Eterno. A distrarmi, svetta una grossa zucca in primo piano rispetto alla situazione. Sembra voler avvolgere l’intera scena con una rotondità prorompente. Non contenta vuole essere la protagonista assoluta. Volentieri le attribuirei un ruolo: ma poi chi chiamerei per le altri parti. Perché la vita non è un teatro. No. Il teatro può reinventarsi in monologo, in dialogo interiore. Ognuno è libero di correggere gli errori. Non ci sono falsi moralismi, atteggiamenti convenienti. Forse potrei essere io stessa quella zucca nell’ orto di mia zia. Quando la neve scenderà la ricoprirà di ghiaccio che la ferirà fino a farla esplodere in tanti grani piccolissimi. Per lei nessuna lastra di marmo pesante ad opprimerla. Solo l’erba ad accogliere e contenere i frammenti. Non rimane che niente.

Fertilità. Mentre ci purificavamo ardendo di finire, lei mi sussurra qualcosa: è incinta per la quinta volta. Proprio davanti a quella zucca. Se la riderà tra se e se a vederci così dispiaciuti, ma in fondo è contenta perché passa talmente tanto tempo in solitudine! E appena la preghiera finisce vorrei andarle vicino e dirle:”Sei viva, non sei un oggetto, non sei una zucca, ma solo una donna incinta.”

Illusioni. Il regno degli sprechi. Il motore dell’auto si è fermato e manda alcuni gemiti posticci, a significare che sta male, quindi vuole stare da solo. Ci avviciniamo alla piazza, inzuppati. La pioggia che cade disegna un sentiero di luce tra le nostre ombre e la chiesa per niente barocca. Per renderla più leggera gli addetti la sollevano con un grande braccio meccanico e la fanno scivolare dolcemente su un carrello a ruote. Ora la trascinano su per la scalinata bianca di pietra dove aspetta il prete. Con un incomprensibile, forse scaramantico gesto, asperge la gabbia eterna con semplice acqua. Qualcuno ride in modo bonario, provocando l’irritazione di qualcun altro. Ma i sordi non ci fanno caso, piangono. La gente entra ordinatamente in una fila che sembra percorrere l’intera lunghezza del paese. La predica. Il prete per niente sofferente scimmiotta parole di ipocrita consolazione. Enunciati tagliati su misura, concetti carichi di potenza evocativa, frasi che servono ai vivi e soprattutto ai morti per trovare un eden medioevale. Il ritmo delle sue parole è come un continente sommerso, riemerso un istante dai fondali marini. Le candele davanti a me hanno il potere di riscattare l’anima di chi generosamente affida i terreni averi.

Con un soffio le spengo tutte, dopo essermi quasi bruciata la pelle. Gli occhi palpitano per il disturbo della luce. Sono così abituati alla notte. Finendo dice “La messa è finita, andate in pace”, poi si corregge. Lei viene nuovamente posta sul carrello, come un televisore nuovo comprato al supermercato. Spinta dagli addetti, direzione cimitero.

La musica. Chiudo gli occhi. Dentro di me sfilano scheletri con i denti sorridenti che gettando petali rosa, pescano dal cranio del compagno vuoto. Sono in fila indiana. Il primo alla testa ha in mano un crocifisso ammazza vampiri, il secondo gli svita il cranio con un cacciavite e così fanno tutti quelli dietro di lui. Mentre la scena si svolge, una musica li avvolge. Apro gli occhi, scoprendo di essere perfettamente sveglia accorgendomi che davanti alla sepoltura c’è una banda musicale. La marcia funebre sembra rallegrare. Una cerimonia che è l’ultimo appuntamento con il mondo. La pomposità dei brani è occasione di orgoglio per un poveraccio che mai vedrà tanta solennità intorno a lui. Senza che nessuno se ne accorga mi volgo nella direzione opposta e la musica affonda come una città nei miei timpani. Dopo la sua morte niente è stato come prima. Me ne stavo nel letto intere giornate. I miei genitori si sono separati senza dire una parola. Nessuno si è accorto di me. Lei era, quindi mancava in ogni luogo e mio padre sbuffava continuando a svolgere le faccende quotidiane. Mia madre è scappata con il suo pancione rigonfio. Non l’ho mai più rivista.

Ultimo atto. E quando è giunta l’ora di separarci per sempre l’abbiamo fatto in un cortile di strane costruzioni. C’era un piramide in marmo ma la frase non era in egizio. C’era un monolite rettangolare ed imponente con nessuna parola. C’era un’enorme immagine che ricopriva un’intera lapide. Uno scienziato forse. C’era un gigantesco cubo dentro il quale si potevano distinguere delle ossa e un telo rosso di velluto. C’erano le tradizionali cappelle famigliari all’interno delle quali la famiglia si sarebbe riunita dopo la morte. Lei fu deposta nella “casa” dei propri cari. Messa vicino a suo marito. O almeno ci provarono. Andò tutto bene fino a quando non arrivarono al cospetto del morto. Probabilmente gli addetti non erano stati informati della straordinaria alt
ezza del sepolcro: 20 piani. Così aveva predisposto, in modo che trovassero posto tutti: figli, nipoti, pronipoti, cugini, amici di famiglia, sorelle e fratelli ancora vivi. Quindi c’era un posto già assegnato anche per me e le mie squallide fattezze. Mentre tutti intorno si muovevano per aggiustare l’inconveniente mi riflettevo nel vetro della porta e mi vedevo già morta, con gli occhi vuoti, i capelli di un grigio argenteo e il viso sfigurato dalle rughe.

L’ascensore, che avevano preso a prestito dal guardiano, si rifiutava di salire, come se qualcuno, prevedendo, l’avesse manomesso. Dopo svariati tentativi, ispirati da una colonna sonora specialissima, la sirena di un’ambulanza che passava di lì per caso, decisero di prendere una scala a pioli e tentare così di trasportarla fino alla vetta. La scala era di legno marcio e quando il primo addetto vi pose piede gli cadde quasi in testa. Come fare? Andarono a prendere l’auto per il trasporto e l’arrestarono al di sotto. Poi fecero salire il braccio il più possibile. Poteva andare. Malauguratamente però si erano dimenticati di aprire il sepolcro. Così il guardiano salì sul braccio per aprirlo. Sfortunatamente, finita la missione, saltando dall’auto si ruppe il braccio.

Qualcuno, forse lo stesso che avevo notato davanti alla chiesa, s’abbandonò ad una risata sonora. Chiamarono l’ambulanza, che era appena ritornata al pronto soccorso. Alfine, fecero salire la cassa e, anche se minacciò più volte di cadere, la fecero scivolare nel sepolcro. Quel rumore di congedo mi scosse. Lo stesso effetto che fa una slitta sulla neve, ma molto più sonoro. Ha qualcosa di agghiacciante, come quando da piccola mia nonna strofinava insieme il coltello e la forchetta, per pulirla, quest’ultima dei pezzi di insalata che si erano appiccicati. Quel rumore, unito al rumore del trapano del dentista più una slitta che va sulla neve. Questo è il buio. Questo è il silenzio. Silenzio e Buio spiegati con parole quotidiane. Squallide, come squallido è pensare a riordinare le nostre cose personali pensando che un giorno non le vedremo più.

“Eterno riposo, dona a loro signore, splenda adesso la luce perpetua riposino in pace amen.”

Un mese dopo la morte di mia zia, io e mia sorella andammo ad una festa. Una banda suonava un’aria leggera e divertente. Mi ricordai per un attimo il funerale. Ci pensavo spesso a quel rumore che avevo sepolto, perché mi sembrava così superficiale rispetto al momento. Ridere era diventato un aspetto di superficie, come scegliere di mangiare la torta per il proprio compleanno oppure no. Mia sorella come al solito era carina e elegante. Io al contrario sembravo un pagliaccio. Ho sempre provato grande invidia per lei, come la testa di una moneta vorrebbe assomigliare un po’ di più ad una croce eppure non ci riesce.

A volte mi domando perché le donne devono essere sempre sensuali e decorative per forza. A me non piace essere un albero di natale. Forse non sono una donna. Vedo mia sorella attorniata da tante persone tra cui alcuni ragazzi, che avranno la mia età. Riflettendoci su sono arrivata alla conclusione che il lato decorativo di una donna serve per coprire i difetti che si porta addosso. Tutto questo piace agli uomini semplicemente perché, credendosi senza difetti, pretendono una compagna uguale a loro. Non ho mai avuto un fidanzato.

Non c’è dialogo. Silenzio. Nell’aria c’era il profumo dell’autunno quando siamo ritornati a casa. Abbiamo mangiato una povera mensa e poi sfiniti siamo andati a dormire. Lei era uno scheletro ormai. E la zucca era rimasta da sola in stato interessante e doveva affrontare un sanguinoso, per modo di dire, combattimento con le patate rimaste in campo a rivaleggiare. Chissà chi avrebbe vinto, se non fosse caduta la neve. La zucca sapeva che doveva riguardarsi, ma non riusciva a muoversi. Sarebbero morti entrambi la zucca e lo zucchino. Caro, vecchio ciclo vitale.

Dopo aver sognato parole consunte mi sono svegliata con le lacrime che mi cadevano sulle guance e con la schiena fredda. Tutto andava all’incontrario, tutto andava bene, tutto era naturale, scontato: Lei è morta.

Brevi battute. Rumore. Sottofondo di luce soffusa nella sera del trentuno ottobre. Due occhi mi fissano, ne insidiano l’intimità, i pensieri. Eppure sono calamite irresistibili, due poli negativi che contengono una risposta positiva. Non c’è dialogo.

Il giorno dopo l’ho rivisto, attraverso il fumo delle caldarroste: praticamente un illusionista che aveva il potere di scomparire. Crederci sarebbe stata una cosa da bambini o da pazzi o da Me. Rimaneva, tuttavia, l’elettricità nell’aria a ricordarmi che ero viva e tutte le funzioni vitali erano a posto. Allora si è avvicinato presentandosi con la mano tesa come “Thomas”. Aveva qualcosa di esotico quel nome, simile a quando per sentire il rumore del mare ci mettevamo una mano davanti all’orecchio allontanandola e avvicinandola e immaginavamo di trovarci in un hotel dentro una foresta di palme. Tiravamo giù le serrande e poi immaginavamo di essere due amanti che si abbandonavano alla passione del momento. Giacevamo una sopra l’altra nude.

Non riuscivo a ricordare Thomas, così lo corressi in Tommaso. Come presa da un turbine che mi sollevò, che mi fa girare e poi ancora girare e poi ancora girare in un valzer con la mente. Il suo sguardo raccontava cose personali che sembrano essere rimaste in sospeso per darmi modo di dimenticarle vivendo. Mi fissava, ma ero sola. Thomas era qualche passo più lontano. Il freddo incominciava a sbattere contro le orecchie arrossate e il suono di quella voce maschile mi avvolgeva. Cominciammo a camminare uno vicino all’altra senza meta. Davanti a noi non c’era una città, non c’era un panorama, ma decine e decine di strade illuminate e ad ogni bivio un semaforo. Mille semafori da tre colori. Era un gioco strano.

Thomas cominciò il discorso dicendo ”Sembra strano scoprire come le persone emarginate si assomiglino tutte”

“Perché sei un emarginato? Per me è sinonimo di scarto”

“Ti sbagli un emarginato non è uno scarto, è una persona che non sceglie perché non ha il coraggio o semplicemente perché non può”

“Parliamo d’altro, quanti anni hai?”

“Mi rifletto in te, come la luce di questi cerchi colorati si riflette sui vetri. E un riflesso non ha bisogno di spiegarsi perché è parte di se stessi. Il silenzio è la sua frase migliore. Nel silenzio si possono dire tante cose e tutte ugualmente belle.”

“E le certezze?”

“Sono nel silenzio”

“Perché ritieni che se una persona non parla sia più intelligente?”

“Solo se ha la luce negli occhi”

“Mi sembra di essere dentro un gioco in scatola, vorrei sapere qual è il gioco . Sono dentro ad un gioco ma non ne conosco le modalità”

“Probabilmente non è così essenziale capire verso dove stiamo andando. L’importante è sapere che quando questa strada finirà potremo tornare indietro, eccetto perdersi in vicoli minori”

Intanto mi immaginavo un modellino con tanti corridoi rettangolari chiusi o quasi ed una piccola fessura per passare da una figura all’altra. Quella sera incontrammo dopo un infinito tempo di silenzi una donna che chiedeva implorante dei soldi. Glieli diedi ma quando passai di nuovo era accasciata ad una parete, in stato di libidine. Vicino a lei c’era una siringa. Stavo contribuendo ad uccidere i miei simili. Improvvisamente vidi anche lui con gli occhi incavati. Un mostro. Ecco cos’era una proiezione della mia mente. Provai di nuovo a parlarli, gli dissi: “Il tuo silenzio sembra così incorporeo quasi finto. Ti prego parlami”

“ Perché hai così paura? Cosa importa se esisto? Intanto dopo stanotte non mi rivedrai più”

“Questa è solo una parentesi. Ma un sentimento strano mi coinvolge e non riesco, non voglio vederne la fine. Ti lascerò dopo, ma nel momento e nel luogo che vorrò io”

Mi pareva di giocare ad un gioco pericoloso la cui fine sarebbe stata una trappola. Quanto
avrebbe potuto durare prima che uno dei due non si facesse male? Entrammo in un Mc Donald e finalmente lo vidi sotto la luce del neon: sembrava più magro e trasandato, eppure così affascinante. A dir la verità prima di allora non avevo ancora visto la sua cicatrice rossa, ma mi piaceva infinitamente. Mentre Thomas aspettava il pasto lo fissavo e sottovoce, ma abbastanza alto in modo che lui potesse sentire ho detto: ”Che carino!”.

Come per magia eravamo ritornati in una città normale perché nei pressi del locale c’era una stazione, la cui presenza era segnalata da una parte dalle volanti della polizia e dall’altra dai barboni che dormivano dall’altra parte della strada. Spezzando l’atmosfera incantata mi consigliò di non andare tutta sola in un posto che non conoscevo a quelle ore della notte, così mi ricondusse alla festa. Mentre si stava allontanando lo raggiunsi nuovamente e rincominciammo a parlare. Per la seconda volta in una notte rimanemmo da soli. Stavamo seduti su degli scalini. Al principio era il silenzio, poi lui mi sussurrò “Tra due ore spunterà il sole, mi piacerebbe che venissi con me a vedere l’alba. Il posto dove ti voglio portare è un cortile cintato e non è molto distante da qui. Vuoi venire con me?”

A questo punto qualcuno pronunciò nella mia mente “Il tempo è scaduto, non sei Cenerentola, sai cosa vuol dire che il tempo è scaduto”. Quindi risposi dicendo “Devo andare via è tardi”

“Dove devi andare?”

“In un cortile cintato da una muraglia bianca dove si trovano altre persone. È un giardino dove crescono fiori bizzarri, ognuno è un esemplare a sé”

“Anch’io devo raggiungere quel giardino verso l’alba. Dal momento che sapevo questo fin dall’inizio ti ho chiesto di accompagnarmi”

“Come facevi a sapere uno dei miei più intimi e strani pensieri senza che te lo dicessi”

“Speravo che avessi capito qual’è la mia vera identità, credevo che il discorso sullo specchio avesse dipanato tutti i tuoi dubbi”

Senza più dire una parola trascinammo i nostri corpi verso il luogo pattuito dai nostri intimi.

Silenzio. Mentre ci purificavamo ardendo di finire, lei mi sussurra qualcosa: è incinta per la quinta volta. Proprio davanti a quella zucca. Se la riderà tra sé e sé a vederci così dispiaciuti, ma in fondo è contenta perché passa talmente tanto tempo in solitudine! Questo ricordo mi riportò al momento in cui credevamo ancora degni di sopravviverle. Quando vidi quella lapide con una frase così profondamente sciocca e retorica capii di essere arrivata a destinazione. Thomas non mi era più accanto per il semplice motivo che non esisteva. Quel ragazzo mi apparteneva interamente perché ero io: un uomo che si sente una donna. I dialoghi che ho riportato minuziosamente in queste pagine e in altre del mio diario non sono mai avvenuti, nessuno esiste più ormai perché sono morti due mesi fa. Anch’io troverò spazio vicino a coloro che ho conosciuto, l’unico rimasto vuoto due mesi fa…

Silenzio. Sono passati due mesi da quando mia zia è morta. Aveva un volto composto, non un capello fuori posto. Sembrava dormire. La sera si era appisolata e non si è più svegliata. La mattina i grandi mi hanno detto che era scivolata nel silenzio perpetuo. Da quella mattina, ho paura di addormentarmi la sera perché temo di non risvegliarmi. Devo confessare che prima di adesso non credevo veramente di potermi dimenticare di aver vissuto. Silenzio. Perpetuo.

Finalmente capirò se è vero che di notte tutti i defunti si destano per danzare.

Finalmente capirò il segreto della zucca diva.

Finalmente danzerò insieme a tutti gli altri tra i sepolcri aperti.

Finalmente mi addormenterò senza paura di non risvegliarmi.

Finalmente nessuno violerà più un silenzio

Di due mesi e cento anni fa.

di Eva G.