Cose da vedere alla Tate Modern
Luglio 31, 2007 in Viaggi e Turismo da Stefano Mola
Vacanze imminenti. Se avete in tasca un biglietto per Londra e vi va di fare un pieno d’arte moderna, ecco un grande obbiettivo: la Tate Modern. A piace anche solo come luogo: una centrale elettrica riconvertita in museo d’arte moderna. Mi piace che gli edifici non muoiano, che se ne trovi un nuovo utilizzo, una nuova vita. Mi piace sentire la tensione tra quello che erano prima e quello che sono adesso. La cosa che mi colpisce di più è l’enorme spazio interno, il locale che conteneva le turbine: 35 metri di altezza e 152 metri di lunghezza. Schiaccia a terra come la navata di una chiesa gotica. L’enormità è qualcosa che chiama altro, che ci ricorda le nostre trascurabili dimensioni. È uno spazio scuro dove la luce si insinua in lame, proprio come dalle vetrate di una cattedrale. C’è il senso di una potenza assente, o latente, o che se è andata, proprio come quella delle turbine che una volta erano lì e ora non ci sono più. Da fuori la Tate poi si annuncia con una solitaria ciminiera, altissima, puntata contro il cielo come il braccio di una croce, come un obelisco, come una torre di babele, come una sfida, come un simbolo insomma, quello che vogliamo scegliere, a seconda del momento, a seconda della cultura.
Delle molte cose che ci sono in quei cinque piani e d’arte e tutto il resto, un’opera e una mostra. L’opera è Ave Maria, di Maurizio Cattelan. A me Cattelan piace. È uno shock, spesso. Provocazioni, quasi mai fine a sé stesse, perché mantiene un margine di ambiguità attorno cui il pensiero si attorciglia, attratto e respinto allo stesso tempo. Mette in moto qualcosa, mi incolla magneticamente. Immaginate un muro da cui spuntano tre braccia tese nel saluto romano. Solo quello, solo tre braccia. Camicia bianca, giacca nera, dorso della mano peloso. La prima cosa, senza aver nemmeno letto il titolo, è proprio quello sbalzare dal nulla, quel perforare il muro, come qualcosa che non può essere tenuto fuori, come un qualcosa che abbiamo rimosso o che pensavamo estinto: invece eccolo lì, privato del resto del corpo, ma soprattutto privato della testa, come un riflesso galvanico, come una forza cieca. Se non c’è la testa non c’è la ragione, è un gesto, un automatismo, un consegnare se stessi a qualcos’altro, un privarsi dell’identità, una rinuncia. Eppure quelle braccia sono così tese, sembrano missili, dunque non è una rinuncia passiva, c’è una violenza nemmeno tanto latente, altrimenti, senza, come avrebbero potuto perforare il muro? E questo è il lato oscuro, inquietante. Poi c’è il titolo. Ave Maria. Dunque la religione. Il nazi-fascismo sottinteso è equiparabile alla religione? I fanatismi non sono che forme diverse di un’unica pulsione, del consegnare se stessi a qualcosa al di fuori di sé? Penso anche quell’Hitler inginocchiato visto il settembre scorso a Palazzo Grassi, come raccolto in preghiera. Penso che queste mie parole non risolvono, che forse c’è dell’altro, penso che ho avuto un sobbalzo, penso che sono stato intrigato, penso che mi sono messo a pensare.
La mostra invece. Hélio Oiticica, The Body of Colour. La locandina faceva intuire rettangoli colorati, per lo più in tonalità calde. Anche se l’astratto geometrico non è tanto il mio genere almeno vedrò colori vitali, mi sono detto. Nelle prime stanze, conferme alla mia cauta perplessità. Rettangoli di compensato dipinti di un solo colore e appesi. Nella terza stanza, solo bianchi. Nessuna reazione nello sguardo o nella testa. Con perseveranza, ho perseverato. Finalmente, nella stanza n° 7 ho trovato qualcosa che mi ha catturato. I Bólides. I rettangoli di compensato dipinti hanno raggiunto una tridimensionalità, componendosi in parallelepipedi. Scatole. Con aperture, cassetti, tagli, fessure.
Per esempio, uno dei miei preferiti, il Bólide 16. Due sportelli socchiusi su due diverse facce opposte che mostrano due “dentro” diversi. Da uno, si vede l’interno riempito di frammenti di carbone. Dalla parte opposta, conchiglie. Il nero del carbone: l’inconscio? La fatica? La sofferenza? La pesantezza? Le conchiglie: il mare, e di nuovo l’inconscio, ma anche il sogno, o la leggerezza. Le conchiglie sono a loro volta qualcosa che racchiude, scatole dentro la scatola. Il carbone volendo potremmo anche toccarlo, deborda dall’apertura, le conchiglie invece sono trattenute dietro una superficie trasparente. Se ci facciamo strada attraverso il carbone, la fatica, la tristezza, poi arriviamo dall’altra parte, alle conchiglie, al mare, ai nostri sogni? La scatola è verniciata di blu, dunque mare di nuovo, oppure cielo, universo. Ma chi dice che è il percorso sia proprio quello? Che il davanti sia il carbone e il dietro le conchiglie? E così altre, con tagli, aperture irregolari, giochi di ombre e di luce attraverso fessure cose che si intravedono, come della polvere azzurra in un cassetto con a fianco uno sportello chiuso. Dietro c’è altra polvere azzurra, oppure? Insomma, ambiguità, curiosità. Una scatola è pur sempre una domanda. Quando le risposte possibili sono più di una, le domande si moltiplicano, nascono suggestioni. È questo che ricerco: essere messo in moto.
Poi, nella stanza 8, Il Grande Nucleo. Come si vede dalla foto (in cui i colori non rendono bene, sono troppo freddi) una serie di pannelli è sospesa in aria ad altezze differenti da fili trasparenti. Subito, un senso di sogno – le cose nella vita normale non se ne stanno magicamente a mezz’aria – di sorpresa, delicatezza, serenità grazie ai colori caldi. Poi un delimitare lo spazio (sono disposti l’uno rispetto all’altro per angoli retti) ma lasciandolo al tempo stesso aperto. È come se dietro tutto questo ci fosse l’idea che i rettangoli possano da un momento all’altro precipitare in una costruzione normale, appoggiata sul terreno. Invece restano lì, si toccano appena, c’è per l’occhio comunque un grado di libertà. Qualcosa che al tempo stesse è aperto e chiuso, non finito ma nemmeno incompiuto, uno stadio intermedio tra il cielo e la terra, un labirinto che non chiede una soluzione. Anche, allora, una città invisibile, nel senso di Calvino.
Tate Modern
Helio Oiticica
The Body of Colour
Fino al 23 Settembre 2007
Image credits:
di Stefano Mola