Quasi felici
Marzo 2, 2003 in Racconti da Redazione
E’ un inverno freddissimo, come non se ne vedono da anni, come non se ne sentono da anni…Il freddo è così pungente e penetrante, le ossa sembrano sul punto di spezzarsi, le membra congelate, il respiro allo spasimo. Dublino è sempre fredda in inverno, ma quest’anno la neve non fa in tempo a scendere ed è già ghiacciata, per strada non si vede anima viva, dalle finestre baluginano i fuochi dei camini, nelle case fortunate che li posseggono. C’è un’ospedale tutto grigio, austero e dall’aspetto triste, in fondo alla strada che porta al mare. Fuori, come un sacco mezzo vuoto, se ne sta afflosciata una giovane donna, tremante e sporca. Vestita a strati, da chissà quanti stracci. Sembra una senzatetto, forse ubriaca o drogata, ma queste temperature obbligano i sensi a ridestarsi, e lei fa meno paura di quanta ne faccia questo gelo, a chiunque passi di lì. E’ quasi bella, se si desse una ripulita, se avesse vestiti profumati e capelli candidi. Sembra avere dai venti ai trentanni, e un’aria fragile da creatura smarrita. Sono dieci giorni, sta pensando la ragazza, dieci giorni che sono qua fuori…Fottuti bastardi! Non me lo lasciano vedere, non mi lasciano nemmeno entrare, non so se è vivo o morto…Cosa diavolo devo fare? E stringe la neve con quel guanto mezzo rotto, per soffocare un grido una protesta un lamento…E quella mano è livida, paralizzata dal freddo improvviso e pungente come cento spine. Si alza piano, sfinita e dolorante, sembra una vecchina. Si annoda il fazzoletto sulla testa, con l’altra mano si asciuga gli occhi, e trascinandosi si allontana. Si gira un attimo però, solo un istante prima di svoltare l’angolo, e guarda l’ospedale grigio, soffiando un bacio alle finestre dell’ultimo piano, con un sorriso lieve.
Ecco la Chiesa. E’ bellissima, pensa la giovane. E calda, e illuminata. Manca poco più di un’ora alla Santa Messa, se entro e mi riposo un po’ magari non mi vedranno, e nessuno mi caccerà fuori. Allora entra piano e…ohhh che incanto, le sfugge a voce alta, o almeno così pensa lei, perché in realtà la sua voce è ormai un sussurro, roca e flebile come il suo cuore. E’ quasi Natale, e la luce di mille candele illumina le statue come i fari il mare in tempesta, quasi fosse un atto di salvezza di soccorso di guida. Non veniva mai in posti come questi, lei. Nemmeno quando i loro amici scavalcavano la staccionata e forzavano la porta, per passare finalmente la notte in un luogo caldo e riparato, perché era la casa di Dio ma non ci abitava nessuno. Loro due, lei e James, preferivano il parco, gli androni, le banchine giù al porto. Sempre, sempre erano riusciti a sistemarsi, a cavarsela in un modo o nell’altro. Avrebbero potuto anche andarsene a Londra, con suo fratello, ma amavano così tanto quella loro città. La giravano in lungo e in largo, con lui che gli raccontava la vita come se fosse una poesia. Oddio, pensa la ragazza, mi cedono le gambe, come quando aspettavo il mio bambino…E cade con le ginocchia contro il legno duro, senza riuscire ad alzarsi né a versare una lacrima. E’ strano, il suo cuore sta singhiozzando. E’ strano, si vede anche se lei non piange affatto, come se il suo corpo fosse trasparente. Devo alzare la testa, Signore fammi alzare la testa…Pulsa lo so, forse ho la febbre, ma devo controllare se arriva qualcuno, non posso cedere così al mio dolore, mi alzo, mi scaldo ancora un minuto e vado fuori.
Forza, al tre…Testa su, e davanti c’è una statua di marmo. Chissà chi è, sembra povero anche lui. Un uomo povero che pare triste, e come un pugno in pieno petto, barcolla, le torna in mente James, il suo volto scavato in mezzo a quel sorriso disarmante.
Oh James, amore mio, come stai? L’ultima volta che ti ho visto non te la passavi troppo bene..Eppure sono stata io a chiedere aiuto per te, amore non morire ti prego non te ne andare, tieni duro tesoro che questa maledetta ambulanza sta arrivando… E me lo hanno portato via senza dirmi niente, mi hanno sbarrato la strada quando ho cercato di salire per andare con loro…Tu, vai via. Così mi hanno detto, mentre ridendo si tappavano il naso, ridevano di noi amore mio, una volta in più, anche mentre tu lottavi per non morire e il mio cuore lottava per non scoppiare. Tieni duro angelo mio, uscirai di lì con le tue gambe, più presto di quanto tu possa immaginare. Magari per Natale, eh James? Non manca molto, e mi avevi fatto una promessa, ti ricordi? Finalmente saremmo andati all’Istituto, a Belfast, per guardare di nascosto il nostro bambino giocare e sorridere, aprire i pacchi delle suore e poi accorgersi di un regalo senza biglietto. Avremmo pianto un po’, e poi riso nel vedere che si metteva le dita nel nasino. James, lo sai che da sola non avrò mai il coraggio, ci devi essere tu al mio fianco. Uscirai di lì ci puoi giurare, e passeremo un Natale felice.
Faceva troppo freddo amore, ti sei spogliato di quasi tutto, per coprire me. “Assideramento” hanno detto i camici bianchi. E ridacchiando parlavano di alcool, denutrizione, pidocchi e droga…Certo, una sciroccata come me non avrebbe potuto udirli né comprenderli. Volevo mettermi ad urlare, non parlate di lui così, non vi azzardate figli di puttana…Ma poi ho capito che era vero tutto, erano vere quelle parole, era vero il fatto che sei svenuto e non hai aperto gli occhi fino a che non ti hanno portato via, era vera la loro indifferenza. Ho taciuto, con il palmo della mano premuto contro il finestrino, ciao amore vai che io ti aspetto. Non ti ho più visto da allora, nessuno mi dice niente, non posso nemmeno sedermi sulle morbide poltrone della sala d’attesa. Posso però incollare i miei occhi su quella finestra, dove un amico che usciva di lì mi ha detto di averti visto dormire, in un letto pieno di coperte. Magari un giorno di questi ti affacci e mi vedi. Ho i piedi tagliati dalle ferite inferte dal freddo, la testa che mi scoppia, la bocca secca e le mani rosse e gonfie. Ma sotto ho la gonna di pizzo rosa, che mi hai regalato tu. E poi ci prendiamo per mano, perché i nostri guanti rotti se sono uniti ne formano uno intero, e camminiamo stringendocele forte, senza sentire più questo gelo terribile. Devi uscire da quelle quattro mura, maledizione, e ogni mattina che Dio manda in terra sorridere alla tua donna. Se avessi i soldi, se potessi comprare un biglietto di quella dannata lotteria, e se magari vincessi, ti regalerei dei guanti nuovi, un cappello, un pollo arrosto, calze pulite di lana vergine. E poi un viaggio. Vorrei regalarti il sole, un posto caldo dove non ci servono vestiti e dove nessuno si ammala di assideramento. Oppure potremmo andare sulle Alpi, in Italia, e più farà freddo fuori, più noi metteremo legna nel camino. Ma forse dovremmo decidere insieme, perché un giorno mi hai detto di voler rivedere Budapest e la via in cui sei nato. Dev’essere bellissima sotto Natale, me lo dicevi sempre. Povero amore sfortunato, quanta strada hai fatto per scappare dalla strada. Hai trovato solo me, ed altre strade ancor più fredde. Un giorno sei arrivato tremando, e mi hai raccontato la tua vita, senza mai smettere di tremare. Alla fine, con quel tuo sorriso scaccianuvole, mi hai detto adesso conosci tutti i miei segreti, mi tieni in pugno…E ora devo andare a casa. Ti ho risposto, tu sei a casa. E mi hai creduta. Adesso penso che se non l’avessi detto, tu ti saresti salvato. Magari saresti al sicuro, non assiderato e felice. Mi ricordo le tue ultime parole prima di stare male…Sai, io riesco a vedere me stesso, quando mi guardi.
Questo pensiero scalda una giovane donna, china su di un banco rigido, in una Chiesa illuminata, quando fuori nevica, mentre l’Irlanda aspetta il Natale. Nel frattempo, in un’ospedale di pietra grigia, un ragazzo apre gli occhi e chiede di essere accompagnato alla finestra. Vede solo un uomo curvo, che entra in una Chiesa. Quest