Una richiesta di aiuto

Dicembre 18, 2008 in Medley da Stefano Mola

Venerdì 5 dicembre ho ricevuto questa mail dall’Australia:

Buongiorno,

la prego di perdonare questa mia intrusione nella sua giornata. Sto cercando di contattare i parenti di Stefano Mola, soldato dell’esercito italiano durante la Seconda Guerra Mondiale, matricola 69029. Stefano nacque il 29 gennaio 1917 a Fasana. Stefano fu catturato a Bardia, in Libia, nel 1941, e deportato in Australia come prigioniero di guerra. Se lei appartiene alla stessa famiglia, vorrei poterle parlare di Stefano.

Grazie,

Barry

Ho fatto qualche breve ricerca: di Fasana in Italia ce n’erano cinque, ne sono rimaste quattro, una adesso è Croazia. Il mio cognome è diffuso principalmente in Piemonte, Puglia e Campania, dove una Fasana c’è, per esempio. La battaglia esisteva.

Un altro me, in un diverso tempo e spazio. Due libri con la stessa copertina che raccontano storie completamente diverse. Sono rimasto molto colpito, ho deciso che avrei scritto a Barry. Gli ho chiesto se lo aveva conosciuto.

Mi ha risposto di no. Mi ha raccontato che sta facendo delle ricerche su alcuni ricordi della sua infanzia. Tra questi, un’esplosione, avvenuta quando lui aveva sei anni, a Bathurst, Nuovo Galles del Sud, Australia. Dove c’era un campo per prigionieri di guerra. Alcuni, per l’appunto, italiani.

Stefano Mola - ritaglio giornaleQuell’esplosione ne uccise due, Stefano Mola e Pietro Monfredi e ne ferì gravemente un terzo, Adelmo Rondinini. Mi ha mandato la pagina del giornale locale che ne dà notizia (a effetto leggere l’annuncio della morte del mio nome e cognome: era il 3 giugno del 1946, 20 anni e cinque giorni prima che nascessi io). Poi è andato a visitare le tombe. Ecco le sue parole:

Fui sorpreso, a dir poco, nel vedere che le tombe erano del tutto prive di segno di riconoscimento, nemmeno una croce con il nome. Questo non è il modo di rendere onore a chi è scomparso, quanto meno è necessaria una qualche forma di riconoscimento.

Barry ha contattato l’ambasciata italiana per informarla. È arrivato a me digitando su Google il mio nome e cognome. In ciò che sta facendo Barry c’è una pietas disinteressata quasi commovente. Gli ho chiesto se mi autorizzava a raccontare questa storia, nella speranza che qualcuno, leggendola, potesse fornire qualche elemento sui parenti di Stefano. Non solo Barry mi ha risposto di sì, ma mi ha inviato altro materiale.

Stefano Mola - fotoUna foto, che vedete qui. Stefano Mola è uno di questi uomini. Alcuni documenti relativi alla sua registrazione come prigioniero di guerra, da cui abbiamo altri elementi. Fu catturato il 4 gennaio del 1941, ma arrivò in Australia, via Bombay, il 4 novembre 1943. Era alto 1 metro e 62, aveva capelli neri, occhi castani, carnagione scura. Faceva il carrettiere, non era sposato. Firmava prima col cognome e poi col nome (come ho iniziato a fare io, fin da piccolo, cercando di imitare la firma di mio padre). Suo padre si chiamava Donato Mola. Domicilio: Austuna Stuni, Brindisi.

Cercando in internet, non ho trovato Austuna Stuni in Puglia. Così come nessuna delle Fasana è in Puglia. Però in Puglia c’è Ostuni. Forse Stefano non parlava l’inglese, e i funzionari dell’esercito australiano non conoscevano la nostra lingua. Non è così assurdo pensare che Ostuni possa diventare Austuna Stuni, e a maggior ragione, Fasano diventare Fasana. Ma queste sono solo mie ipotesi. Poiché Ostuni, Fasano e Brindisi sono vicine, io mi sono convinto che i parenti di Stefano vadano cercati nella provincia di Brindisi, dove la densità del mio cognome è peraltro elevata.

Sarebbe bello se qualcuno, leggendo per caso queste righe, potesse portare un altro anello, e chiudere il cerchio della memoria.

Questi sono i fatti. Quel che segue, non sono che sono mie divagazioni su quello che ha fatto Barry.

Ogni esistenza è un alone che a breve distanza dal centro cede al buio. Un alone che si muove, e nel passare del tempo interseca altre figure, immagini che si staccano dal buio per entrare un attimo nella luce. Alcune vengono conosciute, riconosciute, condivise fino al punto di fondersi in un’unica materia luminosa. Altre invece non rimangono che uno sfarfallio, qualcosa di tremolante appena percepito.

Io che non so nulla di Barry, lo immagino così. In una stanza buia, come in una specie di cinematografo privato. Una stanza buia per proiettare sul muro – rumore di fondo della pellicola che scorre – la traccia di luce della sua esistenza. Così quella stanza diventa una sala cinematografica, come quelle – impensabili eppure perfette – che si possono incrociare in alcune strette vie di Parigi. Rue Saint André des Arts, per esempio.

Non so come e perché lui decida a un certo punto di entrarci, se per determinazione o per caso, per un riflesso di sé magari in un manifesto, per agganciare così la propria storia ad un’altra. Poco importa. Sta di fatto che lui ora è lì, e scorre il film all’indietro.

Le immagini che entrano dal buio entro quell’alone di luce che è l’alone di Barry si fanno via via più confusamente poetiche – o almeno io penso, o forse desidero che sia così. Sempre più simili ad apparizioni saltellanti, inframezzate di lacune, dubbi.

All’improvviso la sua attenzione si impiglia su un dettaglio, qualcosa che un certo giorno ha sfiorato appena il confine dell’alone: il fragore di un’esplosione. Non so perché proprio in quel punto l’interesse di Barry si faccia più acuto, però il film invece di continuare a scorrere diventa una fotografia. Barry si alza, si avvicina allo schermo, allunga le dita verso quel frammento d’ombra che è il ricordo dell’esplosione, come per sentirne il rilievo, come se i polpastrelli potessero completare l’informazione.

A questo punto potrebbe anche semplicemente scuotere la testa e tornare a sedersi. Quante scaglie ogni giorno attraversano il nostro alone, e noi non ce ne curiamo, per scelta o semplice disinteresse, anche necessari. Invece a questo Barry con una curiosità di bambino adulto vuole sapere quale altro alone c’è in quello sfarfallio, in quella rugosità del muro percorsa con le dita.

Allungare il braccio dove si estende il buio non basta. Occorre uscire dal cinema, andare in un archivio, trovare un giornale, un nome, quello di un altro me, insieme a quello di Pietro Monfredi, e da lì la storia, che come un vento può spostarci come lucciole, dalla Puglia alla Libia e di lì dall’altra parte del mondo, in Australia, a incontrare il destino assurdo di un’esplosione fortuita.

Ma è il passaggio successivo ad essere commovente (ogni tanto bisogna poter usare questa parola, per quanto lisa e abusata). È qualcosa per cui un tempo c’era un nome, o almeno l’avevano i nostri padri latini: la pietas. Una pietas ancora più nobile perché disinteressata. L’affacciarsi al soglio di una tomba legata a sé soltanto dal ricordo di un’esplosione avvenuta quando Barry aveva sei anni. Non c’è vincolo di sangue, né di nazionalità. È semplicemente il trovarsi di fronte, con rispetto, ad un’altra esistenza, con quell’affratellamento che viene soltanto dall’essere uomini. Constatare attorno a quella tomba la pietas non c’è.

E ancora, il non rassegnarsi. Perché anche qui, anche dopo la pietas, ci si potrebbe fermare. Anche un solo istante di raccoglimento, anche solo un pensiero laico, già sarebbe stato un gran segno, il raccogliere una eco d’un altra esistenza che ci ha sfiorato.

Invece Barry fa ancora un passo. Digita quel nome e cognome – che sono anche i miei – e coinvolge il consolato italiano. Più di questo Barry non poteva fare. Fo
rse qualcosa possiamo fare noi. Per gli stessi suoi motivi.

di Stefano Mola