Mandami a dire

Settembre 2, 2005 in Libri da Stefano Mola

Titolo: Mandami a dire
Autore: Pino Roveredo
Casa editrice: Bompiani
Prezzo: € 9,00
Pagine: 171

Copertina Mandami a direChe cosa ci manda a dire Pino Roveredo in questa raccolta di racconti? Quello che non vogliamo vedere. Quello che facciamo finta di non vedere. Quello che sta dietro la carta da parati della normalità, qualunque costume vogliate mettere a questa parola. Verrebbe da usare una parola lisa quale marginalità, se non puzzasse di sociologia d’accatto.

Ci sono storie d’amore nate in manicomio e paradossalmente troncate proprio dal libera tutti. Cancellata l’istituzione, svanito il confine che proprio quel sentimento racchiudeva: Maledetta libertà, troppo grande per due che non riescono a incontrarsi, com’è possibile che da anni consumo le scarpe dentro la speranza senza riuscire a trovarti (dal racconto che porta lo stesso titolo della raccolta).

C’è un padre che deve cercare di riappicicarsi alla vita dopo la morte del figlio in un incidente stradale (100! 120! 140!). C’è il ricordo dei genitori sordomuti e la poesia del loro linguaggio (Parlare con le mani, ascoltare con gli occhi). C’è la storia del gregario mandato in fuga per scherno (Il maiale col fiocco). C’è l’esistenza minima di operaio in catena di montaggio che per 43 anni ha messo coperchi a barattoli di vernice. Solo che lui, coi colori, ci parlava. E altre ancora.

Viene in mente la ragazza di Guccini in Autogrill: quasi triste come i fiori e l’erba di scarpata ferroviaria. Un clima così, che se non ci fai attenzione magari non te ne accorgi neanche, oppure lo acchiappi quasi senza volerlo con la coda dell’occhio, ma poi tieni il centro della pupilla ben fisso su qualcos’altro. Queste storie bisogna volerle cercare, ma poi non sono per nulla facili da trattare. C’è in agguato sopra la spalla la scimmia della melensaggine, dell’effetto facile, della lacrima profumata.

Pino Roveredo riesce in un’opera di equilibrismo. Riesce a coniugare partecipazione, senza annullare la distanza. Mantiene lucidità, ma riesce a far trasudare la sofferenza. Ironica, senza la caduta della presa in giro. Come ha scritto Claudio Magris nella sua bellissima introduzione questa familiarità con la debolezza e insieme con la sacralità dell’esistenza è irriverente, perché non arretra dinanzi ad alcuna anche impudica o imbarazzante miseria e non s’inchina ad alcuna solennità, ma la tira giù dal piedistallo, dando del tu o anche peggio al Padreterno e mostrando i rattoppi nei calzoni o i buchi nelle calze della vita.

di Stefano Mola