Il Ratto dal serraglio di Livermore

Maggio 15, 2006 in Spettacoli da Stefano Mola

Ratto dal Serraglio - 1Bellissimo. Già avevo Dichiarato la mia stima per Davide Livermore, regista dell’allestimento. Non sono stato deluso. Ribadisco: c’è chi per essere originale a tutti i costi, per dimostrare intelligenza, spesso fa scelte fini a se stesse, che in definitiva servono solo a far parlare di sé, non a dare vita a uno spettacolo. Nei tre spettacoli di Livermore che ho visto, l’impressione è stata diversa (come si dice, tre indizi fanno una prova). Le sue scelte mi sembrano sì originali, ma soprattutto tendono al pieno rispetto e alla valorizzazione del testo.

Che cos’era la Turchia, al tempo in cui Mozart scrive questo singspiel? Non più un pericolo militare, scongiurato quasi un secolo prima. Non è in questa direzione che dobbiamo guardare: piuttosto, alle turcherie e soprattutto, al secolo dei lumi. L’oriente, per l’Illuminismo, è un modo per parlare a nuora perché suocera intenda. Non si possono criticare direttamente i sovrani occidentali? Costruiamo un virtuoso pascià orientale che serva da exemplum. L’Oriente è quindi un altrove ipotetico, un mondo di cui pochi hanno avuto esperienza, una dimensione di favola e di mito.

Come rendere l’altrove nel 2006? In un mondo iper-connesso, di villaggi turistici e webcam è difficile scovarlo su questa terra. L’idea di Livermore è quindi di abbandonare pianeta. Il ratto dal serraglio è quindi su una specie di superficie lunare. Mentre l’orchestra suona l’ouverture, ecco che i personaggi volano da una parte all’altra sospesi per aria mentre sullo sfondo scorrono immagini di pianeti. Il tutto mi ha fatto pensare a Mélies. La scena è essenziale, ma raramente statica. A Livermore piace che la scena si scomponga, si muova, si inclini. I suoi segmenti avvicinano e allontanano i personaggi.

Ratto dal Serraglio - 2Prendiamo uno dei momenti emotivamente più intensi, il primo dialogo tra Kostanze e il pascià Selim. Kostanze è stata rapita dai pirati, venduta come schiava e ora arruolata nell’harem di Selim. Selim la ama, ma la rispetta: non vuole prenderla con la forza. Kostanze ammira Selim ma è innamorata di Belmonte (Oh se lo potessi! Se potessi ricambiarti… ma…). Qui c’è tutta la drammatica tensione tra il rispetto e l’amore, tra il desiderio e il trattenersi dall’uso della forza. Alla fine, una parte della scena si inabissa: Kostanze e Selim restano separati da un crepaccio. Il rispetto non può riempirlo e tramutarsi in amore.

Selim poi in scena è interpretato da un mimo. Sembra un incrocio tra uno dei Rockets (qualcuno li ricorda?) per il viso argentato e un samurai per il vestito. L’idea geniale qui è far parlare Selim con una voce fuori campo, amplificata e leggermente distorta. L’impressione è di un ulteriore salto dimensionale. La ragione che me ne sono fatta io è questa. Prendiamo le parole finali di Selim. Dopo aver scoperto che Kostanze sta cercando di scappare con Belmonte (nel frattempo infiltratosi nel palazzo spacciato dal servo Pedrillo, pure lui venduto schiavo dai pirati) e che Belmonte è il figlio del suo peggior nemico, si trattiene dal fare giustizia sommaria e dice a Belmonte:

Dev’essere allora connaturato alla tua famiglia commettere ingiustizie, dato che le accetti come ovvie! Tu t’inganni. Ho troppo aborrito tuo padre, perché io possa ormai seguire le sue orme. Riprendi la tua libertà, riprendi Kostanze, sciogli le vele verso la tua patria, di’ a tuo padre che tu fosti in mio potere, che ti ho lasciato libero, per potergli dire che è un piacere ben maggiore contraccambiare un’ingiustizia subita con opere di bene, piuttosto che rendere male per male […] Va’, dunque, e se sarai almeno più umano di tuo padre, il mio gesto sarà ricompensato

e infine, a Kostanze:

Io mi auguro, signora, per la falsità che mi avete serbato, che mai possiate rimpiangere di aver respinto il mio cuore

Ratto dal Serraglio - 3Una saggezza così sconfinata da non poter essere attribuita a qualcosa di umano se non come modello irraggiungibile. Ma se dunque non è umana, che sembri, visto che siamo sulla luna, un alieno: un rockets vestito da samurai con una voce che rimbomba e richiama un po’ un Darth Vader ma buono. Per di più i recitativi sono in tedesco, quindi l’effetto alieno è rafforzato (il mimo è un plastico Sax Nicosia, la voce fuori campo è di Roberta Cortese).

Oppure, altra piccola chicca, nell’aria di Belmonte Ah in quant’ansia, ah in quanto fuoco, il cantante è solo in scena. Alle sue spalle un enorme sfondo rosso. Quando canta i versi batte il cuor mio pien d’amore e s’accresce il mio cuor a scoppiar scorre sullo sfondo rosso una linea blu che poi sussulta a mo’ di elettrocardiogramma. Una piccola cosa. Tutta la scenografia è estremamente essenziale, ma si vivifica di tante idee come questa. Mi fermo, la tentazione sarebbe di raccontare ogni singolo significativo episodio.

Ottima anche il movimento e la recitazione, pur nei limiti di un testo drammaturgico che spesso isola un personaggio a cantare un’aria da solo. Aleggia su tutto un’aria di sospesa magia, a metà tra il buffonesco e il malinconico, uno spazio fiabesco, allegro e serio allo stesso tempo. Nella serata in cui ero al Regio (sabato 13), menzione speciale per l’Osmin di Kurt Rydl, sia vocalmente sia per presenza scenica e aderenza in recitazione al truce da strapazzo custode della villa del Pascià. Altrettanto brava come attrice la Blonde di Silvia Colombini, pur se con qualche incertezza nella voce. Buoni tutti gli altri: Anna Smiech intensa Kostanze nel duetto malinconico con il pascià, Mario Zeffiri (Belmonte), Kurt Anzesberger (Pedrillo) e il direttore d’orchestra Tomas Netopil. Assolutamente da non dimenticare Santi Centineo (scene), Giusi Giustino (costumi) e Andrea Anfossi (luci).

(lo scrivente pertanto aderisce incondizionatamente alla campagna lanciata da questo blog)

di Stefano Mola