Arabi danzanti

Maggio 23, 2004 in Libri da Stefano Mola

Titolo: Arabi danzanti
Autore: Sayed Kashua
Casa editrice: Guanda
Prezzo: € 14.00
Pagine: 185

Sembro più israeliano di un israeliano calzato e vestito. Sono sempre contento quando gli ebrei me lo fanno notare: Non sembri affatto arabo, dicono. Alcuni sostengono che questo sia razzismo, ma io lo considero sempre un complimento. Un successo. Del resto era questo che volevo diventare: ebreo. Ho lavorato sodo per farcela, e alla fine ci sono riuscito

Arabi danzantiEcco il nocciolo del libro, che racconta in prima persona la vita di un ragazzo arabo israeliano dall’infanzia fino al matrimonio. E anche il tono: un misto di autoironia, malinconia, amarezza, disillusione, e forse anche comicità. La scrittura di Kashua fa uso di tutte queste sfumature, mescolandole in proporzioni diverse, passando talvolta accanto ai grandi drammi e lasciandoli intravedere per allusione. Forse qui sta parte della forza del libro: in un mondo urlato e alluvionato di immagini, riuscire a far intuire, offrire uno sguardo laterale, può avere la stessa efficacia di una smorzata elegante in una partita di tennis.

Una volta, ho assistito a un incontro con lo scrittore Ian McEwan. Ha detto che uno dei valori più grandi della scrittura è permettere per un attimo di mettere i piedi in un paio di scarpe altrui, e provare a camminarci. Credo che valga appieno per Arabi danzanti. Qui abbiamo l’opportunità di percorrere strade molto difficili, ai cui lati si sta accumulando molto dolore, soprattutto in questi tempi. Ci si potrebbe aspettare uno sguardo durissimo, un pamphlet, una requisitoria: e invece l’aspetto più sorprendente del libro è proprio la quasi totale assenza di accuse frontali, non c’è una pittura agiografica o martirologica, perché, come detto sopra, questo libro non è fatto solo di bianco o nero. Più che lo scontro tra due culture molto diverse, c’è l’assenza di volontà di integrazione, l’accettazione scontata di un’incompatibilità.

Un’infanzia serena, inconsapevole di cosa voglia dire essere palestinesi, sospesa tra due figure. La nonna, forse la vera figura materna, che gli ha consegnato le chiavi della valigetta dove tiene il proprio corredo funebre, che lo porta a fare il bagno nel Mar Rosso, che lo alleva con ricordi e racconti del passato. E il padre, idealista, militante palestinese, comunista rivoluzionario. Ma se la prima è vista attraverso la lente del rispetto e dell’affetto, il secondo sembra più un generale su un cavallo a dondolo, attraversato da slanci di furia solo parzialmente comprensibili e destinato a guardare il tramonto dei suoi ideali.

Il ragazzo ha un’opportunità di incredibile, una specie di vincita alla lotteria: andare a studiare a Gerusalemme. La possibilità di ricevere un’istruzione di una qualità che non sarebbe avvicinabile in una scuola araba. Anche il padre esulta: vede uno spiraglio di riscatto, sogna che il figlio possa essere il primo arabo a costruire la bomba atomica.

Ma al tempo stesso questo colpo di fortuna lo getta in mezzo alla terra di nessuno. Il protagonista vorrebbe semplicemente e soltanto quelli che tutti i ragazzi del mondo desiderano: trovare una propria identità, essere accettati, essere amati. Questi obiettivi, già difficili da raggiungere per chi vive in situazioni storiche e sociali molto meno problematiche, si dimostrano quasi impossibili da raggiungere. Il periodo di studio a Gerusalemme rappresenta lo snodo del libro e della vita del protagonista. Si può mostrare la propria faccia quando già ci si trova avvolti in una pellicola che ci rende opachi? Che margini esistono per la nostra individualità quando veniamo visti in primo luogo come un nome collettivo? Il ragazzo è in primo luogo arabo, e poi tutto il resto.

Come la storia andrà a finire, lo lasciamo scoprire a chi avrà voglia di leggere il libro. E vale la pena farlo. Il romanzo non è ovviamente solo il ritratto di un’esperienza umana dai risvolti universali (la ricerca della propria individualità), ma anche, come già detto, quello della situazione di due culture e di due società molto diverse, forse irrimediabilmente. Sembra veramente che le differenze possano precludere la possibilità di una convivenza, se non di un’armonizzazione. Il rapporto tra uomini e donne; il valore della terra e della casa, per non fare che due esempi. Il tono che verso la fine del libro si fa sempre più amaro e malinconico viene dalla constatazione che forse non esiste nessuna soluzione possibile alla situazione palestinese. Anche il riflusso verso l’integralismo mussulmano è dipinto come una strada senza uscita (si veda il capitolo tragicomico dedicato al pellegrinaggio alla mecca).

Forse, è meglio per tutti, anche per i profughi, prendere la cittadinanza israeliana, per diventare cittadini di serie B in uno stato sionista piuttosto che essere cittadini di serie A in uno stato arabo. Meglio essere servi di un nemico che servi di un leader del tuo popolo.

In rete potete trovare due interviste all’autore: su stradanove e infinitestorie .

di Stefano Mola