Where are we going?

Settembre 30, 2009 in Medley da Stefano Mola

Il complesso monumentale di San Salvador è vicino a Rialto. Ha un ampio chiostro con doppio cortile, ritmato da archi e colonne tondi, sta lì dal 1100, circa. Silenzio bianco, pace a due passi dal ponte ricolmo di turisti e bancarelle. Il primo cortile del chiostro ospita adesso la partecipazione nazionale del Gabon alla Biennale Arte 2009: Go nogé mènè, di Owanto.

Ci sono arrivato un sabato mattina alle 10. A quell’ora Venezia ancora respira ancora. Ricomincerà a farlo solo all’arrivo del buio. Nessun altro oltre me nel chiostro. Mi viene da appoggiando la suola cercando di non far rumore.

Owanto - 2Tre lati del portico sono occupati da grandi fotografie, di grandi dimensioni. Scene di vita quotidiana (l’entrata di una metropolitana, una strada in una grande città, un villaggio probabilmente in Africa, etc) in luoghi non facilmente identificabili.

Le foto in sé non sono particolarmente belle. Non cercano un punto di vista originale, uno scarto. Mostrano, e basta. L’artista ha però inserito nelle foto dei segnali stradali. Proprio quelli triangolari, o tondi. Solo che invece di curva pericolosa, attenzione dossi, divieto di parcheggio, all’interno ci sono delle figure umane. Uomini, donne, bambini: in relazione tra loro. Lui che abbraccia lei che, incinta, sta facendo giocare un bambino, probabilmente il figlio. Una donna con un bambino sulla spalla e un altro appoggiato al fianco.

Dunque non sono segnali di pericolo. Ci sono anche delle scritte che dicono: Where are we going? Dunque sono segnali di attenzione. Dove stiamo andando, come folla, come mondo? Alziamo la testa mentre scivoliamo anonimi come acqua sporca in mezzo alle città? Pensiamo alla possibilità di costruire una famiglia? Scrivo questo non per sottintendere che la famiglia sia per forza un valore. Dico semplicemente: ci poniamo la domanda?

Mi rendo conto che chiederselo così, in astratto, ha poco senso. Dipende dalla nostra situazione contingente, dipende da chi abbiamo o non abbiamo accanto. Dipende dal momento della vita in cui questa domanda ci arriva addosso, troppo presto, troppo tardi, troppo altro.

Owanto - 1Non penso che sia giusto formalizzare una risposta che abbia pretese universali, o la presunzione di imporre un modello. Né l’installazione a mio modo di vedere lo fa. Certo, le shiloutte umane nei cartelli suggeriscono gioia e bellezza (come restare indifferenti davanti a una coppia felice con un bambino piccolo). Certo, il contrasto con il fluire della gente per lo più ripresa di spalle e dunque senza volto, c’è.

Ed è anche corretto dire che qualunque descrizione non può da quanto c’è dietro l’occhio che guarda. Dietro il mio c’è il pensiero di adesso, che lo scopo della vita sia la vita stessa. Che prima questa domanda non me la sono mai posta davvero. Che non voglio passare su questo mondo senza aver provato questa esperienza.

Andare oltre significherebbe una discussione probabilmente pesante e forse sterile sui modelli di società, sulle scelte personali. Ciò che conta, o meglio, ciò che a me piace, è che l’arte contemporanea mi stupisca, mi faccia pensare, susciti domande. Questa installazione ci è riuscita.

Aggiungo che dentro il cortile del chiostro c’è una casa di legno scuro, una specie di palafitta. È un esempio di costruzione tipica del Gabon? Cosa c’è dentro? Suggerisce un ritorno a valori ancestrali? A un’idea di comunità? A me piace pensare che dentro quello spazio delimitato in un modo a me sconosciuto si trovi la risposta che ognuno deve trovare.

Yvette Berger, Owanto, è l’artista che è stata scelta per rappresentare il Gabon, presente per la prima volta alla Biennale. Owanto, nata a Parigi nel 1953 da padre francese e madre gabonese, è vissuta in Gabon nei primi anni della sua infanzia, ed ha poi trascorso la maggior parte della sua vita in Europa, in particolare in Gran Bretagna, Francia e Spagna.

Photos courtesy of Montgolfier

di Stefano Mola