Vite nuove
Maggio 25, 2008 in Libri da Stefano Mola
Titolo: | Vite nuove |
Autore: | Ingo Schultze |
Casa editrice: | Feltrinelli |
Prezzo: | € 22,00 |
Pagine: | 576 |
Da alcune settimane rimugino su una domanda. All’inizio non l’ho presa seriamente; la consideravo troppo profana. Ma ormai credo che sia legittima. Ed è: in che modo l’Ovest è entrato nella mia testa? E che cosa ha prodotto?
La voce che parla, qui sopra, è quella di Enrico Türmer, protagonista di questo romanzo con cui Ingo Schultze è finalista al Premio Grinzane Cavour edizione 2008 per la sezione narrativa straniera. Anzi, dovremmo dire la voce che scrive, visto che si tratta di un romanzo epistolare. Siamo nella DDR, o meglio, quasi. Nel senso che la DDR non è più la DDR da un paio di settimane circa: il Muro di Berlino è appena caduto.
Chi è Enrico Türmer? Un teatrante con romanzi nel cassetto, che in quei giorni euforici e al tempo stesso confusi decide di cominciare a lavorare nella redazione d’un giornale appena fondato. Dalle ambizioni intellettuali d’un tempo, sviluppa ambizione e arrivismo, grazie anche all’esempio di Clemens von Barrista, una specie di bignami del capitalismo.
Ecco cosa raccontano le sue lettera: la trasformazione di un uomo e al tempo stesso quella di un paese. Narrazione non univoca. Non solo distorta dalla parzialità di una parola che dice io, ma anche perché si rivolge a una pluralità di interlocutori: la sorella Vera, l’amico d’infanzia Johann e Nicoletta, l’Irraggiungibile, il vero grande e nascosto amore di Türmer. Dunque, un altro livello di stratificazione, perché:
Al lettore attento non sfuggirà che il Türmer autore di lettere descrive lo stesso avvenimento nelle versioni più diverse e a seconda del destinatario.
Qui invece è Schultze senza veli a parlare, nell’introduzione al libro, che è presentato come vero: ovvero Schultze si presenta a noi lettori come un semplice curatore. Quindi, ancora un altro velo, poiché non possiamo non sapere che Schultze stesso si è trovato a vivere in prima persona il cambiamento. Ci sembra interessante riportare a questo punto queste parole dello scrittore tedesco:
Sette anni ho lavorato a questo romanzo e tre ne ho passati a decidere la forma. Volevo parlare di che cosa era stata la Germania est ma anche di quello che era venuto dopo. La forma epistolare con tre destinatari diversi – la sorella Vera, l’amico d’infanzia Johann e l’irraggiungibile amica Nicoletta – mi permette di vedere il protagonista anche in modo critico, mettere le cose in discussione. Così da rendere più plausibile, la sua trasformazione in un tempo così breve. Non tanto perché Tuermer è finito a fare un giornale di annunci pubblicitari quanto perché si convince che non importa quello che uno scrive, basta che il giornale venda. Contano le copie vendute. Contano i numeri. Il numero ha cancellato la parola. Forse esagero ma la perdita di significato della parola nel nostro mondo per me è un fatto drammatico. (dall’intervista concessa a Vanna Vannuccini, “la Repubblica”, 18 agosto 2007)
La forma è uno degli aspetti più interessanti di questo monumentale romanzo. Per le molteplici risposte che possiamo dare alla domanda: chi parla qui? prima di tutto. Parla Türmer, ovvero il personaggio inventato, oppure Schulze travestito da Türmer? Ma al di là di questa aspetto, che può sembrare di lana caprina, resta il fatto, indubitabile, che si tratta di un punto di vista individuale. Non può (e probabilmente non vuole) essere un bilancio storico. È una delle esperienze possibili, paradigmatica forse, di un momento caratterizzato da un reale sconvolgimento. Un intero mondo è scomparso, e con questo forse anche una certa visione dell’Occidente. Un cambiamento di questa portata, per la ancor breve distanza storica, non può essere dato come compreso, raccontato da una voce che parla per tutti. Da una sola sì.
Anche l’Occidente, in un certo senso, si è liberato. È come dire: sono rimasto solo io, e se sono rimasto solo io ho vinto, dunque non mi devo più mettere in discussione. Diamo ancora la parola a Schultze:
Non mi piace che i ricchi si arricchiscano sempre di più e i poveri sprofondino; che la politica sia man mano più succube dell’economia; e che si possa guadagnare moltissimo vendendo armi. Mi piace il cappuccino – si sottovaluta il ruolo di cose così, ma se ci fosse stato il cappuccino la Ddr ci sarebbe ancora -; mi piace poter andare in cerca di ciò che mi piace, un libro, un vestito, un luogo in cui soggiornare in vacanza; mi piace l’idea di un sistema giuridico che, se fossi imputato, e sulla mia colpa ci fossero dubbi, mi garantirebbe. (dall’intervista concessa a Maria Serena Palieri, “l’Unità”, 9 settembre 2007)
C’è da chiedersi, allora, se questo romanzo parla della scomparsa della DDR, oppure, come tutti i libri importanti, non parli anche un po’ a noi, e di noi.
di Stefano Mola