Sudure | Sudate Carte Racconti I edizione

Gennaio 31, 2003 in Sudate Carte da Redazione

La gita della domenica era il nostro angolo segreto, tutto celato e prezioso, odoroso di intimo: riconciliava le disfatte di una settimana, gli errori ubriachi del sabato sera, riempiva il vuoto delle parole non dette.
Era come ci si trovasse nudi ogni volta, e non solo fisicamente, di fronte ai nostri dubbi e alle nostre paranoie, spogliati e pronti a colpire e a farci colpire l’un l’altra. Era costruttivo, pensavo.
Passavano così interi pomeriggi: erano ore di felicità assoluta, di risa, di schiamazzi, di compassione, di tenerezza, ma pure di silenzio di fronte a quelle viste grandiose. La gita della domenica ci univa nella fatica della conquista.
Era come se ognuno, rivelando se stesso di fronte all’altro, rivelasse la propria situazione comune e la propria differenza all’interno di essa. Eravamo a quei tempi avvocati e giudici di noi stessi.
La nostra gita non era dunque fine a se stessa, non un gesto atletico, ma un modo per fronteggiare la crisi che ci stava investendo.
Ciò non significa che quelle gite fossero passeggiate dietro casa. Erano itinerari a volte lunghi e faticosi.
Spesso partivamo al mattino presto, anche se ben più spesso il mattino si consumava nei postumi della sbornia della notte precedente: fatica non è la parola adatta a descrivere i primi attimi del risveglio, dopo aver dormito poche ore, con in bocca ancora il gusto di tutto quell’alcool che bevevamo secco per sentirci più uniti, capaci di parlare senza eccezione e senza difetto.
Quelle mattine, non si osava neppure guardarsi allo specchio tanto eravamo gonfi in faccia, e con gli occhi come fessure ci riassestavamo i capelli per non sembrare dei pazzi. E neppure ci azzardavamo a prendere una tazza di latte caldo, semmai un po’ di tè, per il timore di buttar tutto di fuori.
Ci addormentavamo ancora ingaggiati dall’alcool e dormivamo senza muoverci: ci si svegliava soltanto all’esplodere della sveglia.
Ci si raddrizzava con fatica, posando i piedi nudi sul pavimento gelato.
Poi si stava lì, con negli occhi gli incubi appena stracciati e con in testa una trottola che srotolava il suo meccanismo tra i muri della camera, a volte finchè le palpebre non premevano abbastanza e con l’ultima energia ci si infilava di nuovo ben dentro.
Ogni volta mi alzavo io per primo per vedere che tempo facesse, se ci fosse un bel sole, se fosse nevicato, se ci fosse la nebbia bassa, se gli alberi avessero la brina, se piovesse e così via. A seconda del tempo svegliavo Nadia o mi infilavo carponi nel letto: erano parole bisbigliate nell’orecchio o fruscio di coperte.
Quando si decideva di partire, uscendo di casa sembravamo animali ancora anestetizzati, prelevati da un posto lontano, con in testa soltanto l’idea di ritrovare quei luoghi familiari. Il sonno era, almeno per me, un altro angolo di paradiso. Ma presto l’idea scompariva e quei nuovi orizzonti deserti incuriosivano, promettevano una nuova libertà.
Vedo ancora la macchina gelata recalcitrante a partire, vedo ancora i vetri brinati e incrostati di gelo, sento ancora lo stesso glaciale silenzio che nonostante tutto ci univa, sospesi nel nostro piccolo abitacolo familiare.
Mettendo in moto, soltanto allora, ci si trovava seduti di fronte ad un nuovo spettacolo, pensavo, assolutamente più vero e perfetto, seppure la rappresentazione prevedesse il solito finale tragico: il ritorno, poche ore dopo, a casa. La separazione.
Ma allora, almeno a quell’ora, così presto, non lo si pensava e ce ne andavamo lesti, attenti a non svegliare i genitori, che avrebbero voluto vederci più spesso, al momento che la domenica era l’unico giorno della settimana che potevamo offrirgli, ma che da figli unici, preferivamo dedicare a noi stessi, per risolvere i nostri, di problemi. I loro, non erano di certo affar nostro, anche se l’oggetto di quelli eravamo essenzialmente noi, così distanti ed insensibili al loro affetto, disumani, traditori della patria.
Per lungo tempo i miei genitori me lo fecero pesare, perché vedendomi così poco, non era di certo, per loro, un piacere. Io fulcro delle loro aspettative e ambizioni ero, ai loro occhi l’esatto opposto e quelle preoccupazioni e quegli obblighi che mi sparavano addosso non facevano altro che allontanarci. Non fu colpa loro, certo, ma tutta mia, con la voglia di far tutto da me, credendomi il solo a soffrire di ciò che di sbagliato e vano mi circondava.
Al più, quelle mattine lasciavamo sul tavolo o affisso alla porta, da dentro, un biglietto: “Siamo a Garitta Nuova” oppure “Siamo in giro sul Mombracco” o ancora “Saliamo al Quintino, abbiamo preso pure il cane”.
La nostra gita domenicale sapeva dunque, sempre più di roba abbandonata e di altra appena scoperta. Di fuga e di ritrovo.
Fuga da qualcosa che non ci andava, cioè tutto. Dalla vita che maturata troppo in fretta, offriva già il lato marcio di sè, proprio quando sarebbe dovuta essere puramente zuccherina.
Ritrovo, come un pentimento, ogni volta che fuggivamo e che ci trovavamo abbracciati,sperduti in mezzo alla neve,con il cielo che non faceva una piega, ognuno a sopportare i rancori e le debolezze dell’altro.
Ed erano proprio quelle lunghe camminate, quegli altopiani smisurati di sapore irlandese, quelle pareti a picco, quelle pietraie bisbiglianti, quei campi desolati, quelle baite silenziose, quelle ore senza una parola che andavamo cercando, come se quell’insolita rarefazione delle cose, quella monotonia di vento cielo terra sempre uguale, potesse riempire il vuoto tra le nostre esistenze.
Come se quella fatica, conscia e idealizzata, quel sudore che lordava le magliette, avesse il potere, pur non proprio, di mondare dal superfluo e dall’ingannevole le moribonde ore torinesi, chini ciascuno sui libri o asserragliati in casa sua a faticare ciascuno sul collo dell’altra. Quella fatica tutta fisica, di corpo, che mutuava la felicità rendendola in tedio, la domenica scompariva o meglio si tramutava in espiazione, in luogo sacro di liberazione e quel sudore diventava un obbligo, un obolo da far cadere nello scrigno del nostro amore.
“Ci vediamo stasera”, su quei foglietti alla porta compariva ogni volta, poiché nominandolo, quel crocchio di parole, speravo inconsciamente potesse allontanare l’ora in cui io e Nadia ci saremmo dovuti separare, per far spazio ai giorni della settimana.
Ma pretenzioso com’era, quel pensiero ci lavorava di dentro, chinandosi su di noi più di frequente mano a mano che si avvicinava la sera: e le ombre non erano mai state così spaventose.
Vedevo il volto e lo spirito di Nadia rabbuiarsi molto prima che facesse notte. Me ne accorgevo che lei, aperto il baule e stipato lo zaino, cominciava a liberarsi degli scarponi, prima ancora che montassimo in macchina. Se non potevamo essere completamente liberi, incondizionatamente, tanto valeva finirla subito, andarcene alla svelta.
Così, mi sforzavo di parlare, di mantenere vivo con le parole quel mondo fittizio fatto a nostra misura, ma spesso invano: ne vedevo confondere i tratti, come un paesaggio noto nella nebbia diventa ambiguo ed enigmatico.
“Non fare quella faccia, abbiamo ancora metà pomeriggio”.
Erano le ultime parole: di lì in poi, scivolando lentamente ma inesorabilmente, ci trovavamo tristi ed inermi, uniti in un ultimo silenzioso patto di compassione.
Il mutismo risultava essere l’ultimo passo delle nostre gite, già così disadorne di parole pronunciate.
Anche il mattino presto, prima di partire, ci trovava muti, ma di un silenzio diverso; rigidi e pensosi, ad ascoltare se stessi per un po’, cercavamo parole buone per amarci ancora. Per iniziare ad amarci.
E siccome la notte medicava i rancori, quando si parlava lo si faceva come i bambini, senza altra pretesa all’infuori di sentirci bene tra noi. Senza dirci ti amo, desideravo Nadia e mi sentivo desiderato, tutto investito da quei suoi rari discorsi leggeri, ma allo stesso tempo profondi e medicamentosi, per il fatto stesso che rispondessi.
Per tutto il tempo, in macchina, io che guidavo lei che par
lava, ci guardavamo, di nascosto, attraverso il riflesso tremulo dei nostri profili sul parabrezza.
A forza di osservarsi, inquinati da pensieri remoti, sembrava scomparire nell’ombra che facevano gli alberi sulla pelle, l’immagine conosciuta delle nostre persone e comparire alla luce, finito il viale ombreggiato, un’altra di figura, di sconosciuto assente e distante.
Questo movimento allucinato sulle nostre facce, il reiterarsi senza tregua di luce e ombra, acceso e spento, che senza quello specchio non avremmo potuto scorgere, pareva designare alla perfezione, come determinato da una natura partecipe e rivelatrice, il fasico alternarsi disarticolato e imprevedibile dei nostri umori.
Come spezzati da quella visione trasalivamo e quasi vergognosi volgevamo altrove lo sguardo, io concentrandomi sulla strada, Nadia guardando di fuori, di lato.
A fronte di questa rivelazione che ci stroncava, cercavamo in noi stessi risposte che non si rivelavano mai soddisfacenti, perché erano questioni a cui avremmo dovuto rispondere in due.
Ma il mio problema era proprio quello di rivelarmi: avrei voluto scotennarmi, ma per davvero, pur di risarcire di spiegazioni i danni che creavo ogni giorno a causa della mia incapacità oratoria.
La sua fatica, invece era tutta quella di capirmi: lo sforzo più grande che dovette sopportare Nadia, non fu quello di dare alla luce il nostro primogenito, ma piuttosto quello di attribuire un significato plausibile, materiale ai miei scatti d’ira, ai miei penosi silenzi, ai miei pianti notturni.
Ma poi si andava, e con gli scarponi stretti, il berretto premuto e la giacca ben chiusa, le distanze si accorciavano.
I nostri fiati facevano fumo nel notturno mattutino e la salita faticosa un oggetto magico, uno scettro a trascendere la realtà.

Quel luogo così tangibile che era l’uscita della domenica si rivelò tanto più effimero e quelle sensazioni tanto più irraggiungibili, quanto più ci si dava da fare, quanto più ci si sforzava, così che anche l’insegna della domenica, che sgranava la sua luce attraverso le nostre notturne esistenze finì per bruciarsi.
In quello stesso giorno decidemmo che se avremmo voluto continuare a vederci, avremmo dovuto cambiare antifona. Con fatica ci sedemmo sulla panca davanti a casa e prese le mani tra le sue, mi disse che sarebbe partita, che mi avrebbe lasciato per qualche tempo, che aveva una questione importante da sbrigare.
Oggi sono passati tre giorni. Ho settantaquattro anni. I fatti che ho raccontato mi sono apparsi come svegliandomi da un sogno, rarefatti e nitidi. Ma pur sempre da un sogno, che contempla qualcuno che dorma e che sogni. Quel qualcuno sono io. Ho passato tutto questo tempo senza scorgerlo. Oggi sono stremato e mi sveglio dopo cinquant’anni sudato, allo scadere esatto dell’ultima sillaba di quell’ultima frase.
Oggi sono stremato e mi sveglio dopo cinquant’anni seduto su una panca traballante. Solo. Solo con le mie lacrime, la mia ultima fatica.

di Paolo Borghino