Sol y sombra
Luglio 5, 2002 in il Traspiratore da Stefano Mola
Corrida, perché?
Sono stato a Siviglia, e ho assistito ad una corrida. Adesso, mi piacerebbe risalire al perché, al punto d’inizio della decisione.
Non so se mi sembrava una cosa da fare per folklore, secondo il rapporto scontato Spagna-corrida. Non ho mai messo la voce “assistere ad una corrida” tra le 10 cose da fare assolutamente prima di morire, per esempio. E quando molti anni fa avevo letto “Morte nel pomeriggio” (ero un fan assoluto di Hemingway, adesso non so, dovrei rileggerlo), non mi aveva affascinato, l’avevo trovato un po’ noioso, pieno di dettagli tecnici e di personaggi di un ambiente a me sconosciuto. Non mi aveva fatto venire voglia di vedere per verificare.
Invece, pochi giorni prima di partire e soprattutto durante i primi passi per le strade della città, mi è sembrato improvvisamente di averne voglia, come se non andarci volesse dire perdere un’occasione.
Manifesti colorati dicevano: Domingo 28 de Abril, a las 6:30 de la tarde, Novillada con Picadores, 6 novillos 6 (poi, i nomi dei toreri). Così abbiamo iniziato a cercare la Plaza de Toros. Immaginavo qualcosa di simile ad uno stadio, con le gradinate alte. Invece, quasi si fatica a trovarla, se si arriva da centro città: è integrata nelle case intorno (un po’ come la famosa piazza di Lucca). Solo dalla riva del Gualdaquivir si vede bene, si riconosce nella forma tondeggiante, i muri non più alti di quelli di un palazzo di tre piani, bianchissimi, bordati di giallo ocra (aggiungo il cielo azzurro, quel giorno c’era).
Intorno, chioschi minuscoli intitolati “Sol y sombra” offrono i biglietti: i posti a sedere hanno prezzi differenti, a seconda che, all’inizio della corrida, siano o meno a picco sotto il sole.
Sabato: ci assicuriamo due posti scegliendo a caso tra decine di possibilità diverse. Stimiamo che alle 18:30, in Aprile, non sarà poi così caldo il sole e prendiamo posti “sol”.
Dentro l’arena
Domenica. Sole molto forte, ma sono appena le 17:00, siamo in anticipo per capire come si muovono le cose intorno prima dell’inizio. Non c’è quasi nessuno. Poco alla volta, spuntano venditori di cose varie: bottiglie d’acqua che contengono blocchi di ghiaccio, ceci, cappelli di carta come visiere, cuscini. Infatti, ci sono spettatori che arrivano con un cuscino in borsa, molti altri no. I primi sono spagnoli. Quasi tutti gli altri sono italiani.
Alcune porte di accesso alle gradinate sono aperte, la nostra no: davanti, cavalli al passo vanno avanti e indietro, deve essere una specie di riscaldamento, hanno un bardatura ai lati che arriva quasi a toccare terra, è la protezione contro le cornate.
Finalmente possiamo entrare anche noi. Saliamo le scale e, varcando un piccolo arco tondo, ecco l’arena. È in terra battuta, la stanno bagnando. Un addetto ci accoglie per mostrarci i nostri posti. Legge il biglietto, è perplesso, si guarda intorno, non sembra un esperto. Nel nostro settore non c’è ancora nessuno. Ci sediamo. Dopo un quarto d’ora di esposizione in pieno sole, il caldo è quasi insopportabile. Usciamo sul camminamento che circonda l’arena, dove c’è ombra, e, sporgendoci dal parapetto, vediamo che sotto, in un cortiletto, ci sono i cavalli e svariate figure in costume, con i fregi dorati che uno si immagina abbiano i vestiti da torero.
I nuovi che arrivano vanno a salutare tutti quelli che sono già lì, abbracciandoli e baciandoli sulle guance. Sembra cameratismo, con una certa aria solenne, ma con partecipazione, non soltanto rito. A che cosa stanno pensando? Alla possibilità di essere feriti, o peggio? Si guarderanno in faccia per capire se quel giorno sono in forma, o se si possono fidare l’uno dell’altro?
Inizio a sentire una specie di tensione.
Torniamo sulle gradinate, adesso inizia ad esserci molta gente; il posto di prima è occupato, ci sediamo da un’altra parte. Un’italiana mi chiede un’informazione in inglese. Tendendo l’orecchio, riesco a sentire tutti i risultati delle partite del campionato italiano di calcio. Il nostro vicino di destra sembra spagnolo. Arrivano due francesi e reclamano il posto dove siamo seduti noi e lo spagnolo. Lo spagnolo inizia a fare una concione parlando rapidissimamente in spagnolo, chiedendo anche a me il biglietto, per dimostrare che il francese ha torto (invece, sia noi che lo spagnolo siamo abusivi). Il francese desiste.
Tori e toreri
Finalmente inizia. I toreri e gli aiutanti entrano, si inchinano, una banda inizia a suonare. Hanno vestiti blu, e rossi, con dorature. I pantaloni arrivano poco sotto il ginocchio, lasciando spazio a delle incredibili calze fucsia. Infine, come dei mocassini.
Restano sul terreno in 3, con delle cappe pesanti fucsia (ma non dovevano essere rosse?).
Entra il primo toro.
Schizza fino al centro dell’arena velocissimo e poi si arresta. Sembra decisamente aggressivo. I tre iniziano ad aizzarlo, se mai ce ne fosse bisogno. Uno dei tre fa una cosa che lascia di sasso: di fronte alla carica del toro si butta in ginocchio e allarga davanti a sé la cappa, solo leggermente di lato. Se il toro scartasse, lo travolgerebbe.
Inizio a sentire gli occhi incollati a quello che succede, per la tensione, per cercare di capire, di dare un senso a quello che vedo. È difficile usare la parola morte, però mi sembra che tutto abbia a che fare con questo problema. Il toro si precipita contro qualsiasi cosa, senza motivo apparente (anche la morte lo fa). Anche all’inizio, quando non è stato ancora ferito. La prima ferita la riceve dai picadores: sono quelli che stanno a cavallo, e hanno una lancia. La scena è tragicamente ridicola: il toro si avventa sul cavallo ma non può colpirlo grazie alle protezioni, il picador cerca di ferire con la lancia il toro, il cavallo è incalzato dal toro contro il recinto di legno che delimita l’arena e non può muoversi. C’è una sensazione di fatica imbranata, come se le cose stessero andando come non dovrebbero, la gente fischia.
Poi, la banda suona e inizia una seconda fase, il cavallo esce. È il momento delle banderillas, sorta di stuzzicadenti lunghi poco più di mezzo metro che vengono piantati nella schiena del toro. A farlo sono i banderilleros. Corrono incontro al toro senza alcuna protezione, incrociano la sua carica e, nel momento in cui vengono sfiorati dal toro, piazzano le banderillas dall’alto. Sembra un momento di grande coraggio, parola anche questa difficile da usare.
Coraggio o incoscienza?
Il coraggio è sempre vero, ma è anche sempre proporzionato allo scopo? A volte non è un passo oltre, nell’incoscienza? Che cosa centra il coraggio con una sfida che uno si va a cercare, qui, sotto il sole? Cosa si vuole dimostrare in realtà? Coraggio è fare bene una cosa senza nascondersi?
Sembra, questo delle baderillas, un momento estetico, veloce, il pubblico apprezza, applaude. A parte il momento del picador, fin qui la morte è stata burlata, le sono stati dati dei falsi bersagli, addirittura conficcati degli stuzzicadenti (ben 6).
Ora, nuovo breve intermezzo della banda.
Il torero adesso è solo. Ha la muleta, un pezzo di stoffa rossa parzialmente avvolto su un’asta. Il toro è stanco, si muove più lentamente. Parlerò adesso di questa fase mescolando le immagini dei due toreri che ho visto.
Uno ha sfidato l’animale da pochi metri, offrendo l’anca in una posa quasi seduttiva, quasi femminile, tenendo dietro di sé la muleta, invitandolo a caricare, lasciandoselo poi sfilare vicinissimo, senza spostare il corpo e senza fare dei passi di lato ad allontanarsi subito dopo il passaggio del toro, ma semplicemente ruotando sul posto coi piedi per offrirgli nuovamente il fianco. La morte viene sedotta, rallentata, ipnotizzata. L’altro torero invece no. Lasciava il toro molto più lontano e scappava via quasi subito in tre passi ampi e rapidi.
Muleta e banderillas
Nei passaggi della muleta c’è qualche cosa c
he ha a che fare con la danza, e dunque di nuovo qualcosa di femminile, che ha a che fare con la seduzione, il torero e il toro allacciati per un attimo in un mezzo giro. Sedurre non è uccidere, ma perdere in un tentativo di seduzione è come essere, in parte, uccisi: un tratto di futuro immaginato viene cancellato. Incantare per non morire. Per il torero, significa non perdere tutto il futuro, cioè la vita. Forse la sensazione che il torero sia veramente vicino alla morte è esagerata, non so. Tutto questo deve essere fatto bene. Con stile, rispetto, eleganza.
Il primo torero non ce l’ha fatta. È stato incerto e maldestro. È stato fischiato. C’è un pubblico: allora forse il torero si fa carico per tutti dell’esorcismo della morte, diventa un simbolo. In quanto proiezione di un desiderio, forse di un sogno, non può fallire, deve essere all’altezza. L’esecuzione può diventare sofferenza trascinata, l’ansimare rapido del ventre del primo toro e il rivolo di sangue perfettamente distinguibile dopo la prima stoccata fallita. A quel punto è difficile non essere sconvolti. Oppure un colpo solo, come per il secondo torero, che è rimasto frivolo col braccio alzato sopra la testa come un ballerino congelato, una posa eccessiva. Alla fine, si potrebbe dire che viene svelata l’illusione teatrale: la morte comunque c’è, scende nel toro.
Mi è difficile, a mente fredda, definire con precisione che cosa io abbia provato. Sembra assurdo e crudele e folle discettare di estetica di fronte all’uccisione di un essere vivente. Restando ai nudi fatti, si tratta di questo. Ma se spingiamo il paradosso, in ultima analisi, siamo di fronte all’uccisione di un essere vivente anche con una bistecca nel piatto. Non riuscirei a definire bello lo spettacolo. Mi sembra anche stupido dire emozionante, sicuramente sconvolgente. Forse la cosa migliore è sempre andare a vedere coi propri occhi. Alla fine di tutto, io credo ritornerei.
Il Traspiratore – Numero 37-38
di S. Mola