Pensieri su Rigoletto
Gennaio 21, 2008 in Spettacoli da Stefano Mola
LO SPETTACOLO
C’è tantissimo da dire sul Rigoletto, come spettacolo e come narrazione. Iniziamo dalla cronaca, ovvero dall’allestimento che sarà in scena al Regio fino al 3 Febbraio (grazie al benemerito sostegno della Fondazione CRT). Ricordiamo chi ne è l’artefice: la regia è di Giancarlo Cobelli, ripresa qui da Ivo Guerra, scene e i costumi di Paolo Tommasi. Le loro scelte mi sono sembrate perfettamente funzionali. Il palazzo ducale dell’inizio è un trionfo per l’occhio: non soltanto per i colori dei costumi e delle scenografie, ma anche per il movimento dei personaggi secondari sul palco, che accompagnano e sottolineano quelli principali. Si ha davvero l’impressione che non siano contorno, ma funzionali e necessari alla narrazione.
Le famigerate scene di nudo non sono per nulla volgari: è la corte a essere intrinsecamente volgare e amorale, con il Duca di Mantova in primo luogo. Questo universo fatuo e fangoso non è poi tanto diverso da alcuni nostri programmi televisivi e dei relativi retroscena, in cui non è che abbondino i costumi da educande. Ma sulle simmetrie tra il Rigoletto e il nostro universo, diremo in seguito, giocando coi possibili significati dell’opera. Stupenda anche l’apertura del secondo atto, con quella prospettiva infinita di pilastri armadi chiari sul nero, a suggerire un corridoio palazzo astratto. Ed qui, nei dubbi del Duca, che il coordinamento tra i suoi movimenti e quelli del coro raggiunge una pregnanza espressiva notevole: davvero viene rappresentata l’essenza della cortigianeria.
Le altre scene, quelle che mostrano la casa di Rigoletto e la locanda di Sparafucile, sono poverissime e buie. Il contrasto credo sia necessario. L’universo di Rigoletto è segnato dalla condanna estetica, non può essere che scuro e disadorno, e deve essere anche vuoto, deve simboleggiare la sua solitudine senza speranza.
Veniamo alla parte musicale. La direzione di Renato Palumbo ci è sembrata ottima, capace di sottolineare i giusti volumi e di portare bene in primo piano tutti i colori oscuri, sorretta da un gran ritmo. L’esplosione di Cortigiani vil razza dannata è stata notevole, perfettamente coadiuvata (in generale, non solo in quel momento) da un Roberto Frontali che ci ha regalato un Rigoletto dolente e partecipato, un ruolo padroneggiato con successo, senza alcuna difficoltà apparente (essere grandi significa far sembrare semplice ciò che non lo è).
Sono rimasto assolutamente affascinato dalla Gilda di Inva Mula. In particolare, il suo Gualtier Maldè!… nome di lui sì amato è stato strepitoso, ricco di piccoli rallentamenti che rispecchiano perfettamente la trasognata illusione del momento. Molto buono anche il fatuo Duca di Mantova che ci ha regalato Roberto Saccà. Tra le parti secondarie segnalo, anche per la perfetta presenza scenica, lo Sparafucile di Riccardo Zanellato.
Un’ultima segnalazione per il libretto di scena, di cui consiglio senz’altro l’acquisto. Il saggio iniziale di Paolo Gallarati è decisamente esemplare, per profondità di analisi coniugata a chiarezza espositiva, così come ricco e dettagliato il panorama sulle edizioni discografiche fatto Sergio Bestente.
ALLA RICERCA DI POSSIBILI PARALLELI TRA RIGOLETTO E DON GIOVANNI
Rigoletto e Don Giovanni? Ci sono delle simmetrie, o forse delle anti-simmetrie, delle suggestioni incrociate. In entrambe le opere abbiamo una coppia servo-padrone: Don Giovanni e Leporello da una parte, il Duca di Mantova e Rigoletto dall’altra. C’è un rovesciamento del fuoco narrativo: il motore narrativo in Mozart è il padrone, mentre in Verdi è il servo, e un simmetrico rovesciamento nella funzione dell’altro personaggio della coppia.
In entrambe abbiamo un seduttore impenitente. Ma la differenza di statura tra Don Giovanni e il Duca di Mantova è immensa. Il Duca è assolutamente fatuo, ed è lui la vera foglia al vento. Per quanto proclami che questa o quella per me pari sono, riesce anche a dire frasi assolutamente adolescenziali quali:
E dove ora sarà quell’angiol caro?…
colei che prima potè in questo core
destar la fiamma di costanti affetti?
Impossibile immaginare Don Giovanni sdilinquirsi fino a questo punto, parlare di fiamme. Ovvero, ne sarebbe capace, ma solo per fini seduttivi, come con Zerlina per esempio, mai in un dialogo con se stesso. Don Giovanni quando è da solo dice cose come questa:
Mi par ch’oggi il demonio si diverta
d’opporsi a miei piacevoli progressi
vanno mal tutti quanti.
A giudicare quantitativamente dai risultati, non c’è differenza: entrambi accumulano prede. Don Giovanni è scientifico, consapevole, razionale, sparecchia il campo da qualunque coinvolgimento emotivo. Nemmeno il Duca si innamora, se è per questo, ma l’impressione è come se.
Il Duca di Mantova è in un certo senso il simbolo di una certa moderna facilità degli affetti, è il preludio alla commozione tascabile, ai matrimoni fast food, vuole condire lo scatto ormonale con la poesia. Don Giovanni no. Per lui l’amore è al di fuori del campo di indagine, variabile non considerata.
Don Giovanni ha il potere della parola, il Duca seduce con la bellezza. Maddalena, sorella di Sparafucile, dice infatti: Somiglia un Apollo quel giovine. Non sappiamo se Don Giovanni sia bello, nessuno ce lo dice. Don Giovanni è la seduzione al di là della bellezza, è attrazione irresistibile, è il saperci fare. Il Duca di Mantova ha lo stesso potere patinato di un tronista.
In entrambe le opere c’è un personaggio oscuramente incombente: il Commendatore, il Conte di Monterone. Anche qui c’è un interessante slittamento, sia di significato, sia temporale. La statua del commendatore stende la sua ombra sul finale, Monterone pronuncia la sua maledizione fin dall’inizio. Mentre il Commendatore è una specie di giustiziere ultraterreno religioso, e non a caso trascina Don Giovanni nell’inferno, Monterone si trova sullo stesso piano umano. La sua maledizione è divina? A me sembra quasi pre-cristiana, pagana, un desiderio di vendetta per interposta persona, condita dal caso e servita dagli uomini.
Nell’opera di Mozart c’è un ordine del mondo, che viene scosso dalla meteorica presenza del grande seduttore. Il concertato finale è una specie di gran sospiro di sollievo collettivo: la voragine si chiude sopra Don Giovanni e possiamo riprendere a far finta che.
In Verdi invece la componente soprannaturale è assente. Tutto è molto più basso, siamo nella fanghiglia del potere. Non c’è autorevolezza, c’è solo autoritarismo. L’ordine, se c’è, è il Duca stesso, coincide con la corte e le sue bassezze, non rimanda ad altro. Rigoletto è un mondo dove il cielo non c’è. Infatti il finale non chiude niente, tutto si risolve in un grido disperato: Ah! La maledizione
Rigoletto forse è un’opera che rappresenta il nostro tempo più del Don Giovanni. Politica ridotta a clientelismo e gestione del potere. Vacuità del sentimento consumato come gomma da masticare. Riduzione dell’orizzonte. Dominio dell’estetica. Sfiducia e rinuncia alla possibilità di cambiamento.
In tutto questo, Rigoletto viene preso in mezzo. Essendo brutto, è escluso a priori dal mondo. Ha il potere della parola, come Don Giovanni, ma lo usa per irridere ed è colluso col Duca, almeno nel primo atto. Pur sapendo dominare sulla parola, non ne alcuna fiducia educativa: altrimenti perché impedire alla figlia Gilda di conoscere il mondo? La sua educ
azione è semplice divieto, e infatti non funziona per niente.
Leporello invidia Don Giovanni (Voglio fare il galantuomo/e non voglio più servir) ma è intrinsecamente subalterno, non capisce la vera alternativa di Don Giovanni, che non è soltanto posizionamento sulla scala sociale, e cederebbe al patteggiamento morale proposto dal Commendatore.
Rigoletto sente di essere superiore al Duca ma viene tirato a fondo non tanto dalla differenza sociale quanto dalla bruttezza, dal sentimento di esclusione che ne deriva e che gli toglie fiducia esistenziale. La sua rivolta non è politica, si risolve tutta all’interno del sistema: è desiderio di vendetta, è quello che farebbe il Duca, la sua controparte, o un qualunque altro cortigiano. Rigoletto avrebbe l’intelligenza per immaginare un mondo diverso, ma non incarna un’alternativa, a differenza di Don Giovanni, si risolve a un fatalismo, si arrende all’ombra della maledizione.
Le foto che corredano l’articolo sono di Ramese e Giannella, copyright Fondazione Teatro Regio Torino
di Stefano Mola