Passeggiando nelle Olimpiadi degli scacchi
Maggio 29, 2006 in Sport da Stefano Mola
Guardare una partita a scacchi è una cosa così. Immaginate di essere a una partita di calcio, o di basket, o uno sport di squadra che vi piace. Immaginate che tutti i giocatori siano immobili, congelati un attimo prima di colpire o passare la palla. E voi, a bordo campo, vi chiedete: adesso ci sarà un lancio lungo sulla fascia, oppure un passaggio filtrante, oppure darà palla sotto al pivot o invece tirerà da tre. In quel momento, mentre aspettate la mossa del giocatore, potete provare a immaginare lo sviluppo dell’azione. A volte lo potete fare anche allo stadio o al palazzetto, ma lì è tutto più veloce e non dipende da un solo burattinaio, lo scacchista. L’allenatore può solo sperare che i giocatori eseguano gli schemi, qui invece c’è un padrone assoluto. Voi allora, ancor più che al bar, dove commentate le azioni del giorno prima, potete veramente immaginarvi nel centro dell’azione, chiedervi se sia meglio un arrocco o una spinta di pedone, scambiarvi sguardi di intesa con i vicini, annuire silenziosamente di fronte a un Grande Maestro Internazionale che fa proprio la mossa che avevate ipotizzato voi. Oppure, alzare le sopracciglia in un moto di sorpresa: come davanti a un passaggio inaspettato dietro la schiena, a un doppio passo, a una palombella che si deposita lieve e beffarda all’incrocio dei pali, qualcosa che non ci sareste arrivati neanche a pensarci mille anni.
Poi la battaglia muta finisce, una rapida stretta di mano, i segni della tensione sui volti che appena si allentano, un sorriso tirato verso l’accompagnatore. Arriva l’arbitro, fa firmare i referti, sposta i due re dall’ultima posizione, quella in cui il gioco è finito e li accosta, nell’unica posizione impossibile (i due re non possono mai essere a meno di una casella di distanza). Pare una specie di pudore che ricorda un rito funebre, la chiusura degli occhi, la cancellazione dell’ultima traccia, la composizione e vestizione del cadavere. Chi passerà di lì, dopo, guardando le scacchiere orfane di umani, saprà solo che una guerra si è consumata, ma non potrà dedurre dalla scacchiera quanto crudele è stata la morte, se la pugnalata finale è stata vibrata, se invece preventivo s’è manifestato il suicidio dell’abbandono, resterà il dubbio che i contendenti siano affondati nella palude del pareggio.
E voi siete stati lì come voyeur, in questo silenzio ultraterreno che si sente il respiro dall’impianto di climatizzazione, dove non squillano i cellulari, in questa aria che è fatta di pensiero, riempita di ragionamenti e calcoli spremuti dalle mani che a volte sembrano affondare nella fronte, dai volti chini e incombenti sulle 64 caselle, come a ingoiare i miliardi di possibilità delle infinite combinazioni possibili, come a passeggiare con la mente tra i pezzi privi di espressione.
Perché lo sforzo è evidente. Nella torsione dei corpi, nei tic, nella modifica dei tratti somatici, trasfigurati dalla riflessione, corpi che diventano puro supporto, forse ostacolo per le loro stanchezze, la loro perdita progressiva di energia. Credo si possa parlare di sport. Nella definizione di campione sportivo non c’è soltanto il guizzo muscolare, il salto, la corsa. C’è la capacità mentale di modulare il gesto in un contesto di regole e avversari. Anche negli sport individuali, il salto in lungo o in alto, i cento metri. Senza lo sforzo della mente ad accompagnare il corpo, nessun risultato di rilievo è possibile. Qui resta, puro, distillato, lo sforzo della mente. È come andare all’altro estremo della scala, ma restano gli elementi di base: la competizione, le regole.
Anche se non vi piacciono gli scacchi, vale lo stesso la pena di fare un giro all’Oval. Trovate in pochi metri quadri (pochi rispetto alla superficie dell’intero mondo) il riassunto di tutte le forme che può assumere l’umanità, tutti i colori, tutti i vestiti, tutte le lingue. Giacca e cravatta. Tute. Gli scozzesi che domenica hanno giocato con le maglie del Toro. Le donne velate dei paese arabi. Le donne in canotta e bretelline esili dell’Angola e la sciarpa da movimento di liberazione. Tacchi a spillo. Piedi scalzi. Scarpe da tennis. Barbe da scienziato pazzo. Occhi a mandorla. Sari. Disabili. Peluche feticci di portafortuna. Capelli biondi. Capelli rasta. La ragazza con la stella rossa sul cappello. La maglietta da superman. Ragazzini e nonni.
Allora le parole del motto della FIDE, la federazione internazionale degli scacchi, Gens una sumus, siamo un solo popolo, diventano chiarissime, acquistano la concretezza di un senso. Siamo un’unica razza, umana, e in questo spazio, avendo definito delle regole precise, possiamo confrontarci lealmente, perfino comprenderci al di là dei multiformi suoni. Camminando lentamente, sul ponte sotto l’Arco rosso del Lingotto, con sole calante e il vento e le nuvole sparse, domenica sera, andando verso il villaggio olimpico, immerso in mille parole di mille lingue diverse, sembrava non solo possibile ma anche reale.
Se volete vedere altre foto scattate tra sabato e domenica, potete trovarle qui.
di Stefano Mola