Paolo Mussat Sartor alla GAM
Luglio 25, 2006 in Arte da Stefano Mola
Subito non capisco bene. All’inizio penso che siano foto. Se sono semplicemente foto, sembrano sfuocate. Il colore dominante è nero. Quelle che incontro per prime, quelle che alla fine mi piaceranno più di tutte le alte, appartengono alla serie “gambe”. Per provare a capire, mi avvicino. Non sono delle semplici fotografie: su buona parte della superficie è depositato uno strato di pittura ad olio. Si scorge ancora il segno della pennellata. Sembrano quasi squame. In questo modo, il biancore delle gambe salta ancor di più agli occhi, come un lampo al neon, come un’epifania. Si intravvedono delle calze, lo svolazzare di una gonna, il profilo di una scarpa. Si intravvedono o forse si immaginano. La parte restante del corpo della donna non c’è. Non sappiamo niente di lei, del suo viso, dei suoi seni, del suo vestito, del suo carattere.
È come una visione improvvisa colta per strada, un passo di danza involontario, qualcosa che passa, che ci colpisce, che ci intriga, che ci affascina. Qualcosa che non siamo riusciti a catturare, perché magari siamo rimasti risucchiati in mezzo alla folla, perché magari il nostro interlocutore ha preteso la nostra attenzione. Il resto della donna dovremo inventarcelo, così come la storia di un possibile incontro. Qualcosa che potenzialmente rimane sullo sfondo come un seme di ossessione, come un germoglio di una possibilità abortita. Nessuno ci garantisce che sapremmo riconoscere quella donna se fosse vicino a noi, un giorno, magari al bancone di un bar. Allora forse queste opere hanno a che fare con immaginazione e memoria. La loro tecnica ha a che fare con la seconda. Ricordare non è un esercizio di verità. Ricordare è un’operazione che può essere anche falsificante, auto-indulgente. Ricordare gli accadimenti della nostra vita non è un esercizio di verità. Ci mettiamo del nostro, inevitabilmente, consciamente e inconsciamente, inestricabilmente.
Tutto questo secondo me sta nelle pennellate ad olio aggiunte alle foto. Quel nero, quella pittura, possono essere il simbolo di tutto quanto aggiungiamo di nostro alle immagini che ci passano davanti e dentro. La mitizzazione del ricordo che emerge dal buio del nostro inconscio. Poiché è nero, poiché non ci sono altri dettagli, non sappiamo se quelle gambe sono state fotografate in una sala da ballo, un ufficio, una stanza da letto, un marciapiede, dentro quel nero possiamo metterci tutta la nostra memoria immaginata falsificata, tutte le gambe della nostra memoria, tutte le donne che abbiamo visto per un attimo passare e che poi sono scivolate via.
Se la serie “gambe” mi è piaciuta moltissimo, altre foto, in cui ci sono dei nudi integrali, trattati con la stessa tecnica, mi hanno convinto meno. Lì c’è una nudità troppo offerta ed esplicita, qualcosa che ormai è diventato praticamente consuetudine, non scandalizza né aggiunge. Molto particolari anche le coloratissime immagini e quasi iperrealistiche immagini di frutti sezionati.
Paolo Mussat Sartor
Viaggio continuo
Torino, GAM
Fino al 24 settembre 2006
Mostra visitata il 2 giugno 2006
di Stefano Mola