Oedipus e Cavalleria
Marzo 4, 2007 in Spettacoli da Stefano Mola
Siamo andati a vedere il match Stravinskij-Mascagni, al Regio. Ecco le nostre impressioni.
L’Oedipus Rex di Stravinskij-Cocteau non è che offra grandissimi appigli alla regia. I personaggi interagiscono tra loro con le parole, quasi mai coi gesti. Una scelta forte ed esplicita degli autori. Ecco che cosa disse Stravinskij: Pensavo che questa rappresentazione statica fosse un modo più essenziale per concentrare la tragedia non su Edipo in sé e per sé, e sugli altri individui, ma sullo “svolgimento fatale” che, per me, è il significato del testo.
Che cosa ne hanno fatto Roberto Andò e Mimmo Palladino, nel nuovo allestimento in scena ora al Regio? C’è in primo piano una specie di frangiflutti, apparentemente fatto con blocchi cilindrici tronchi di cemento armato, da cui spuntano tondini ritorti di ferro. Questa è Tebe, una Tebe periferia, una Tebe priva di qualsiasi grandezza, come del resto deve essere percepita una città devastata dalla peste. Grigia. Simbolo di costruzioni abortite, distrutte, dimenticate. Dell’impossibilità di un progetto. Qualcosa di simbolico, in una vicenda dove tutto è stato già deciso dal destino. Questo elemento rimane con piccoli spostamenti (aperture, sollevamenti) per tutta la durata dell’opera. A mezza altezza, all’inizio troviamo schierato il coro.
Dietro, sullo sfondo, scorrono immagini al rallentatore. Specie di piume o foglie che volteggiano, sopra un colore cangiante e molto carico. Una specie di sogno, un’immagine di leggerezza perduta. Poco per volta, questo sfondo diventa fisso, d’una tinta che si fa più cupa. Alla fine si apre alle spalle di Edipo un blu quasi elettrico, come l’interno d’un capannone industriale abbandonato. Beffardamente, una prospettiva, proprio quando per Edipo nessuna prospettiva è più possibile.
Quanto all’esecuzione, premetto che Stravinskij non è tra i miei prediletti e la musica dell’Oedipus non mi entusiasma. Darei il voto più alto al coro, quanto ai solisti c’è poco o nulla che esca da una specie di declamato ritmato, per cui mi riservo di parlare dei singoli tra un attimo, quando racconterò Cavalleria Rusticana. Molto buona la prova di Marco Baliani come voce recitante.
Eccoci a Cavalleria Rusticana. Durante il preludio, quando Turiddu canta O Lola c’hai di latti la cammisa, la scena ci è parzialmente nascosta da un velo. In primo piano, un tocco bellissimo: centinaia di arance. Colore, prima di tutto, e poi richiamo alla Sicilia, lieve e pregnante allo stesso tempo. Sul velo e sul fondo scena, immagini. Elaborazioni di fotografie di Ferdinando Scianna, curate dal video artist Luca Scarzella. Questa scelta è sicuramente una delle più felici e suggestive del doppio allestimento. Le foto di Scianna restituiscono un’idea di Sicilia al tempo stesso arcaica, popolare, commovente. Volti carichi di verità.
Il resto della scena è spoglio. Unici elementi: le sedie portate dal coro, l’apecar di compare Turiddu. Il paese, la chiesa, sono immaginati e suggeriti, ma chiaramente presenti. I personaggi sono un po’ soli in tutto quello spazio, come del resto lo sono, psicologicamente, nella vicenda che li trascina verso la tragedia. Al centro c’è una specie di monolito nero rotante, una coppola, o un fico d’India, che contiene in sé teschi e una croce. L’unica cosa un po’ troppo pesante, in un allestimento dove prevalgono l’accenno e il suggerimento, sono forse proprio questi teschi. Ma nel complesso, le scelte di Andò e Palladino mi sono sembrate decisamente convincenti e suggestive, di grande impatto visivo, nonché funzionali alla vicenda narrata. Un scena su tutte, quella della processione, con l’oscillare del turibolo, enorme, sullo sfondo, Santuzza e Lucia inginocchiate in primo piano.
Veniamo ora agli interpreti. Nei neri panni di Santuzza, Ildiko Komlosi ci è parsa appassionata e convincente. Lucio Gallo è stato un Alfio dapprima orgoglioso e tronfio il giusto, e poi vendicativo quanto basta. Walter Fraccaro ci è parso sciogliersi bene solo verso la fine, quando il coefficiente di melodramma prende valori altissimi nel momento in cui Turiddu si congeda dalla madre: lì ci è piaciuto molto. Rossana Rinaldi ha saputo dare il giusto tono di indisponente civetteria al personaggio di Lola. Tornando all’Oedipus, sospendiamo il giudizio su John Uhlenhopp, vorremmo vederlo in un ruolo diverso. Ma non è colpa sua, è che Stravinskij, per dire, non che lo metteremmo nello stereo di casa. Mascagni sì. Buona la direzione di Jacques Lacombe.
Per concludere, a noi sembra che aver accostato due opere così diverse sia un’operazione che ha comunque senso. Come già detto, l’impressione è che traccino due strade convergenti verso la tragedia. Fa pensare che, destino o non destino, dei o non dei, melodia o ritmo, alla fine, qualcosa di tracciato e inevitabile, nelle nostre umane vicende, comunque ci sia.
di Stefano Mola