Letture africane
Maggio 14, 2003 in il Traspiratore da Stefano Mola
C’è ancora posto per una nuova casa editrice? Dipende da come ci comportiamo quando entriamo in una libreria. Se veniamo affetti da strabismo fulminante nel tentativo disperato di abbracciare tutti i volumi presenti, e se le dita si tendono in modo indipendente verso copertine e pagine, percorse dal tremore della curiosità, la risposta è probabilmente sì. Meglio un libro in più che un libro in meno. Un’altra occasione per innamorarsi di una storia, un altro piccolo megafono di carta per una voce nuova, un altro salvagente per la diversità dei punti di vista sul mondo.
Tutto questo significa vedere il libro come passione e possibilità di conoscenza. Ma c’è dell’altro, chiaramente. C’è quella cosa a cui, quando abbiamo in mano un libro, pensiamo poco, ovvero il mercato. Una nuova casa editrice deve trovare il suo spazio in mezzo alla varietà infinita di tutte le altre. Probabilmente, per conquistarsi almeno un angolino, serve un progetto forte, di qualità, ben caratterizzato, ricco di amore per le cose ben fatte. E possibilmente, trovare un terreno poco esplorato, valorizzarlo, farlo crescere.
Noi del Traspi vogliamo qui parlarvi di Epoché, che è una casa editrice i cui primi vagiti saranno sugli scaffali in autunno. Come terreno, ha scelto un intero continente: l’Africa. Immenso, per dimensioni e varietà. Piccolo, se vogliamo misurarlo con il metro dell’attenzione distratta e delle colpevoli dimenticanze che gli riserviamo in Italia. Non sono molte, e non sempre di qualità, le possibilità di conoscere gli autori africani per il pubblico italiano. Il progetto è sicuramente ben caratterizzato e forte. La qualità? Crediamo che garanzia sufficiente sia citare i soci fondatori e il comitato scientifico. Tra i primi troviamo Jean-Claude Fasquelle, supervisore editoriale delle edizioni Grasset & Fasquelle, Nicky Fasquelle, amministratrice della rivista Magazine Littérarie, Costanza Prada, direttrice del Centro Studi Africani di Torino, le giornaliste Franca Tiberto e Dada Rosso, Egi Volterrani, traduttore e africanista, Gaia Amaducci, traduttrice e consulente editoriale. Nel secondo ci sono i giornalisti e scrittori Mimmo Càndito e Vittorio Nisticò, il docente, traduttore e africanista di fama Claudio Gorlier, i saggisti Thierry Fabre e Lilia Zaouli, il poeta tunisino Tahar Bekri.
Per il termometro della passione, e per conoscere meglio il progetto, abbiamo intervistato Gaia Amaducci. Giovane, ma già con un curriculum di tutto rispetto, come potrete scoprire dalle sue risposte.
Come si sceglie la professione di editore? Puoi raccontarci il tuo “percorso di formazione”?
Direi che la professione di editore non si sceglie, a meno che non si abbiano tendenze masochiste. È lei che ti sceglie, che in qualche modo ti invade come una specie di demone. O almeno così è successo a me. Mi sono laureata in filosofia con una tesi su Nietzsche, e ho cominciato subito a lavorare in una casa editrice milanese (la SE) per circa due anni e mezzo. Lì posso dire di aver imparato il cosiddetto “mestiere”, perché essendo una casa editrice piccola ho svolto un po’ tutte le funzioni, dalle bozze all’impaginazione, dall’ufficio stampa alla traduzione di testi. E mi sono resa conto che mi piaceva fare veramente tutto.
Dopodiché, ho lavorato per un anno presso Alphatest, dove ho imparato a lavorare in team, cosa che mi era piuttosto estranea per natura. Eravamo una squadra giovane e affiatata. I colleghi sono diventati amici e oggi mi danno una mano in questo nuovo progetto. Poiché le traduzioni incidono parecchio sul budget di una casa editrice, sono andata a Firenze per frequentare la SETL (Scuola Europea di Traduzione Letteraria), pensando che se avessi tradotto io, in un’eventuale casa editrice futura, avrei potuto risparmiare dei costi. Lì ho incontrato Egi Volterrani: era il mio docente di versione dal francese e ora è socio di Epoché, oltre che prezioso consigliere. Dopo Firenze, sono andata a lavorare un anno a Parigi presso le edizioni Grasset et Fasquelle, per capire com’era l’editoria francese e per prendere contatti che mi sarebbero serviti in futuro. A quel punto ho pensato che forse c’erano le condizioni favorevoli per ideare e proporre il progetto, che ha incontrato molto interesse. Siamo quindi partiti per quest’avventura. Anche se non è un momento facile per l’editoria.
Come è nata l’idea di una casa editrice dedicata alla letteratura africana?
L’idea è nata da una certa insoddisfazione per quello che già c’era, per le traduzioni spesso “tirate via”, per testi molto belli ma in gran parte sconosciuti, anche se pubblicati in italiano. Insomma, abbiamo pensato che potesse essere il momento giusto per proporre un progetto organico su questo tipo di letteratura. E l’interesse che sta creando quest’iniziativa ci fa ben sperare di non aver sbagliato.
“Epoché” significa tra l’altro sospensione del giudizio. In questa scelta è implicita la volontà di anticipare un pregiudizio facile su un continente che i più conoscono solo per averne visto scorci drammatici o folcloristici alla televisione?
Esattamente, Epoché tende a privilegiare l’aspetto squisitamente letterario degli autori che pubblica, cercando di “sdoganarli” dal pittoresco e dall’esotico, come dalla maledizione della miseria, della corruzione e della fame, etichette che spesso accompagnano la letteratura africana e ne condizionano pesantemente il giudizio. In realtà, spesso gli scrittori africani hanno più lauree, importanti incarichi politici e cattedre in prestigiose università. E ciò non ha niente di pittoresco né di esotico, e neppure di commiserevole. Così come la loro scrittura, che spesso è di grande qualità.
Tra i paesi africani, quali sono al momento i più vivaci da un punto di vista culturale e in particolare letterario?
Direi il Sénégal con Mali e Burkina, la Nigeria con Cameroun e Congo, oltre naturalmente all’area nordafricana, sempre molto prolifica.
Qual è il vostro piano editoriale? Privilegerete autori nuovi, o pensate anche ai classici?
Il nostro piano editoriale, per il primo anno, prevede 6-8 titoli e due filoni: quello dei “classici”, che contempla autori come Aimé Césaire (Martinica) e Mohammed Dib (Algeria), e quello dei giovani, autori che intendiamo far venire in Italia per avvicinarli al pubblico dei lettori, come per esempio Calixthe Beyala (Cameroun) o Leila Marouane (Algeria).
Da traduttrice, quali sono gli aspetti linguisticamente più interessanti della letteratura africana?
Diciamo che posso limitarmi a commentare soltanto la lingua francese, che è quella da cui traduco. Per prima cosa, la letteratura francofona è spesso molto più ricca di quella francese, e questo perché la lingua è una lingua “imparata”, spesso anche a suon di violenze. In secondo luogo, gli autori francofoni sono molto attenti a una sonorità linguistica che è a loro propria. Si può riscontrare anche un uso eccessivo dell’aggettivazione che rende il linguaggio più rigoglioso, un linguaggio che spesso gli autori arricchiscono di parole della loro lingua d’origine. Per sintetizzare con una frase, potrei citarne una di Calixthe Beyala, che dice: “Il Francese è francofono ma la francofonia non è francese”.
Se dovessi scommettere su un nome nuovo, chi sceglieresti?
Certamente su chi sto scommettendo davvero: Calixthe Beyala, giovane, bella, vincitrice di numerosi premi letterari… un nome da tenere d’occhio!
Un nome nuovo su cui scommettere?
Proprio Calixthe Beyala, giovane, bella, vincitrice di numerosi premi letterari…!
Il Traspiratore – Numero 43 – 44
di S. Mola