L’enigma mistico di Emily

Aprile 13, 2005 in il Traspiratore da Redazione

53_pag_091775 poesie e 1409 lettere, pubblicate postume, per una vita dalla particolare sregolatezza: Emily Dickinson nasce nel 1830. La sua vita di adolescente sembrerebbe essere ovattata, nel verde delle morbide colline che circondano la homestead paterna, in Massachusetts. In realtà ella aveva un rapporto scontroso con il padre, il quale la sottrasse ben presto agli studi a causa della sua salute cagionevole. Un padre che eppure le regalava libri supplicandola di non leggerli, «perché ha paura mi scuotano la mente», raccontava Emily. Un’infanzia trascorsa nei boschi, l’unica “chiesa” che ella riconoscesse, misconoscendo invece quell’«Eclissi che loro chiamano Padre». Eppure forte era il sentimento religioso con cui si inchinava alla natura, alle piante le cui «piccole guance verdi son tutto un sorriso» a primavera, la sua stagione preferita. «Le semplici cose che la natura ha detto con tenera maestà» erano nutrimento della sua poesia ellittica, libera, che precorse i tempi; queste le hanno dettato la meraviglia per una vita che sentiva “miracolosa” e per la sensazione che fosse ancora più stupendo quello che «noi siamo in potenza». Emily possedeva un solo grande libro, il “libro della Natura” che per lei era una seconda Bibbia, formato da manuali di botanica che le insegnavano la splendida diversità del paesaggio americano rispetto a qualsiasi altro.

Lontano da un dio che dice “introvabile”, dalla figura paterna e da una madre in bilico tra insicurezze e crisi depressive, Emily, quella che noi abbiamo conosciuto attraverso l’immagine che ci rimanda la critica, la bambina minuta, impaurita dal mondo, riluttante a comparire in pubblico, restia a parlare o scrivere di sé, è in realtà il frutto di una sua costruzione, emersa soprattutto dall’epistolario che intrattenne con Thomas Higginson, articolista dell’Atlantic Monthly; uomo che tanto colpì l’immaginario di Emily. «La mia forma è minuscola, non occuperei troppo spazio sulla scrivania né tanto meno farei troppo chiasso come il topo che intacca i suoi corridoi» scrive ad Higginson nel 1862, implorando la sua amicizia. «Sono piccola come lo Scricciolo, i capelli li ho di colore deciso, come la lappa castana e gli occhi, come lo Sherry avanzato nel fondo del bicchiere degli Ospiti. Le basta così?»: mai una scrittrice si era descritta così umilmente.

Una vita difficile eppure segnata da decisioni coraggiose, trascorsa fra crisi nervose, lontananza dalla scuola, cure oftalmiche dolorose ed un problema insoluto, la sua presunta omosessualità, di cui parlò solo alla cara zia. Eppure donna dalla unica incisività, le cui poesie sono tratteggiate con linee precise, da parole che lei vede come zaffiri tagliati di netto da una mano esperta e che sente come lame affilate da maneggiare con cura, come pericolose etichette che la specie umana, unica tra tutte, rilutta a far proprie; donna che con coraggio e precocità pirandelliane o bergmaniane immagina di assistere alla sua morte, immobile e scossa dal solo ronzio di una mosca, forse quella stessa che diventerà simbolo così originale di morte in Pirandello.

È lei che nel 1866 decide di non uscire più di casa fino alla morte, centellinando la vita ed i suoi casuali e sporadici incontri, conscia che «la percezione di un oggetto, ne costa esattamente la perdita». Lei ha sentito in sé la nostalgia assoluta dell’essere altro dal mondo e del fatto che il mondo in quanto altro dall’uomo, mai potrà realmente appartenere all’uomo. Emily preferì rimanere dietro alla sua finestra, cornice e filtro di un mondo esterno sempre più evanescente.

Ma anche per lei giungerà, nel 1878, il vero amore: Otis P. Lord, di poco più giovane del padre, amante ed incarnazione di una figura paterna finalmente amorevole. Dopo tutto anche Lyman, amico di gioventù con cui Emily condivise profonde letture, ci donava un inedito e dolce ritratto della scrittrice, che lasciava supporre una simpatia altrettanto eterea: «Ecco entra una forma trasparente. Vestita di bianco, soffusa, come avvolta in una nebbia sottile. Il viso appena umido, la fronte tornita come una statua di marmo. Gli occhi un tempo nocciola intenso ora sognanti, lo sguardo lontano, pieno di meraviglia, occhi che non vedono forme ma penetrano all’istante nel cuore delle cose. […]La bocca sembrava fatta e usata esclusivamente per pronunciare discorsi di qualità, pensieri preziosi, brillanti, immagini come la luce delle stelle». Otis è per lei un fresco amore epistolare, da cui riceverà anche una richiesta di matrimonio, desiderio, però, mai coronato. Forse per lei era meglio non sfatare il delicato mito della sua esistenza, il calice profumato e fragrante della sua purezza.

Morte come “strada di silenzio”, come “Pausa”, come “estinzione del tempo” ed immortalità sono concetti della sua ultima poesia, incarnati nella sua persona che, nel 1886, anno della sua morte, esibiva «un miracoloso ritorno alla giovinezza». «Ha più di cinquant’anni e ne dimostra trenta, non ha un capello grigio, non una ruga e la pace assoluta sulla bella fronte liscia» diceva Higginson sul letto di morte della poetessa.

Emily seppe mettere la scrittura solo al servizio dei suoi sentimenti, del suo bisogno di donare affetto, non per un desiderio di fama e di mitizzazione che, nonostante ciò, arrivarono quando ella era ancora in vita. Quale genio sregolato insegna la bellezza, la purezza dello scrivere fine a se stesso, di una lettera, «piacere divino negato agli dei», più di lei, straordinaria persona ancora e nonostante tutto capace di un’umile contemplazione estatica?

Il Traspiratore – Numero 53

di C. Inglese