L’attesa di un figlio nella vita di un giovane padre, oggi

Marzo 25, 2006 in Libri da Redazione

Titolo: L’attesa di un figlio nella vita di un giovane padre, oggi
Autore: Peppe Fiore
Casa editrice: Coniglio Editore
Prezzo: € 5,00
Pagine: 64

Peppe FiorePeppe Fiore ha venti cinque anni. È nato a Napoli e vive a Roma, dove scrive per la televisione. Il suo esordio è di quelli che si divorano tutti d’un fiato e che si digeriscono difficilmente. Il libro, a partire dal titolo, è un susseguirsi di pensieri e di fotografie sulla vita. Un linguaggio diretto, che ti arriva in faccia come le porte dell’autobus che si chiudono e non ti vogliono fare entrare; che ti entrano dentro come le canzoni dei Kraftwerk, che non smette di ascoltare dall’acquisto in un mercatino nel centro di Roma. Dipingono degli spaccati di vita quotidiana e di sogni, di emozioni e di amore. L’amore di Fiore per ogni singola lettera scritta, ogni parola pensata. Un desiderio per la narrativa che nasce “tardi” grazie a Moravia, che da allora non ha smesso di leggere e di divorare. Una passione, quella per la letteratura, che si diverte con Federigo Tozzi e Nico Perrone, per arrivare a Ernest Hemingway. Un ragazzo modesto, Peppe Fiore, tanto che quando gli chiedi una buona ragione per dedicarti al suo libro balbetta un po’ e poi, visibilmente emozionato, risponde: “E’ blu”. Dimenticando la sorprendente leggerezza/pesantezza delle sue storie; quello che nascondono i suoi racconti e le infinite citazioni, sottili o urlate. Dimenticando la riflessione. Quella che tutti i suoi racconti costringono a fare.

Un esordio strano per il mondo editoriale e narrativo italiano. Non è da tutti trovare un editore che ti permetta di esordire con dei racconti. E non è da tutti farlo con dodici racconti che ruotano intorno al sesso e a dodici mondi differenti fra loro. Quanto coraggio hai avuto e come ci sei riuscito?

Eh, coraggio. Vai a mettere subito il dito sulla piaga che mi brucia di più. Il coraggio dovrebbe essere la prima qualità di uno che si mette a scrivere; prima dello stile, prima delle letture, prima degli ammanicamenti editoriali (tutte cose necessarie ma non sufficienti). Il problema è capire che cos’è il coraggio per uno che vuole fare un libro. Il fatto di parlare di sesso non è coraggioso; tutti siamo capaci di usare parole legate alla sfera sessuale. Uno scrittore coraggioso invece è un tizio che riesce a mettere su carta le cose di cui si vergogna di più, i lati di sé che gli fanno schifo, le storture del mondo in cui vive e soprattutto il male che subisce. Questi racconti mi vergogno un po’ di farli leggere alle persone che mi conoscono. Mi vergogno, ma non abbastanza, infatti li ho pubblicati: se provassi una totale repulsione per quello che ho fatto, allora sì che sarei stato coraggioso. Il vantaggio di fare un libro di racconti, anche per un esordiente, è che sono più immediatamente consumabili – in questo complice è sicuramente il formato del libro. Specialmente se si tratta di una raccolta pop come questa: sono dodici pillole che si autoconcludono e arrivano all’istante. Te ne leggi due in tram mentre torni dall’università, altri due dopodomani, un altro tra una settimana. E poi, diciamocelo, si parla di sesso, e di questi tempi è tutto grasso che cola.

Un titolo originale quello dell’antologia, che parte proprio dal racconto iniziale. Una storia anomala dove due ragazzi, innamorati, si scoprono genitori di un bambino a due teste. Un neonato che per molti sarebbe stato considerato un mostro e che, invece, per i neosposi diventa emblema di un rapporto d’amore “completo” dove ogni testa assomiglia ad un genitore. Da cosa nasce questa idea di coppia solida, quasi antica, che si rispecchia nella discendenza?

Mica tanto coppia solida. Quello che volevo raccontare (non è che ci pensassi mentre scrivevo, mi viene in mente adesso che mi ci fai riflettere, e non sono nemmeno tanto sicuro che sia giusto) era un amore di coppia costruito sopra a un’anomalia, una stortura, un profondo errore. Un bambino bicefalo, appunto. Come dire che chi si ama – o crede di amarsi – in realtà sta nutrendo una malattia. Deve entrarci qualcosa col fatto che non voglio avere figli, probabilmente. Dovrei parlarne con mia mamma.

Racconti caratterizzati da una particolare attenzione verso quello che ci circonda. Così convivono il pachistano al semaforo che vende fiori a poco prezzo e il ragazzo che trova un libro di poesia su una bancarella e se ne innamora fino a decidere di conoscerne l’autore, l’abitudine sempre più diffusa di lasciarsi i problemi in ufficio e di immergersi, letteralmente, nella Play Station e un viziato figlio unico con manie di persecuzione. Come nasce questa attenzione per i particolari della vita quotidiana?

L’attenzione nasce dal fatto che mi viene da raccontare solo le cose che mi fanno schifo. Il fatto che facciano schifo a me, naturalmente, non vuol dire che non siano giuste o logiche: logico lavorare, logica la playstation, logiche le uscite a quattro, le domeniche al bowling, il cinema sempre di mercoledì sera. Però a me personalmente i cosiddetti particolari della vita quotidiana, che racconto, sono quelli che mi rendono la vita odiosa. Non riuscendo a integrarmici, scelgo di raccontarli: ma è solo un sintomo della mia debolezza. Se fossi veramente un fico, vivrei bene e in pace in mezzo ai miei simili – che invidio tutti con indescrivibile livore – non scriverei una riga e starei ogni sabato da Ikea.

Particolare attenzione viene riservata al rapporto genitori/figli. A parlare a volte è il figlio unico che si lamenta e poi il futuro padre che guarda con rinnovata attenzione i genitori con figli a carico che lo circondano. Hanno influenzato il tuo racconto, quanto e come, la condizione di figlio e quella di padre immaginario?

La mia condizione di figlio unico non è stata per niente immaginaria. Mamma e papà sono due persone eccezionali, che mi hanno cresciuto come se non fossi mai uscito dall’utero: loro hanno avuto nella vita tutta la forza di volontà che manca a me oggi, e questo ha fatto di me un figlio inutilmente riottoso nei loro confronti e pieno di rabbia verso le cose. Non so se questa cosa di scrivere di padri falliti e figli superfalliti dipenda dal fatto che voglio vendicarmi per un male
che non mi hanno mai fatto, oppure semplicemente vendicarmi su me stesso che avrei sempre desiderato essere come loro e non ho mai trovato mai il coraggio di confessarmelo… Nella realtà le cose sono molto semplici: il rapporto genitori figli è un rapporto di subordinazione, di dominio, perennemente frustrato. I genitori si aspettano dai figli troppo di più di quanto i figli potranno mai dargli (perché si vorrebbero moltiplicati in loro). I figli vedono nei genitori il segno della loro sconfitta naturale (“se esisto lo devo a loro”). Nel male che c’è dentro la famiglia si concentra il male di tutta l’esistenza, è il concentrato più puro e più umano – secondo me – della piccineria degli uomini.

Grande rilievo nella tua prosa ha il linguaggio. Immediato e diretto, semplice – quasi minimalista. Come nasce questo straordinario e moderno modo di comunicare?

Esperimenti. Ho scritto migliaia di pagine prima di questi racconti, in stili diversissimi. Per me, come per tutti credo, lo stile si porta dentro la tua visione del mondo. Ogni storia ha la sua voce, e viceversa: e questo diciamo che è ovvio. Il problema è trovare la voce giusta, la giusta temperatura stilistica. Ecco, per me è sempre stato – e lo è tutt’ora, visto che non mi sento arrivato a uno stile efficace – una questione di ricerca e non di tecnica. La tecnica conta moltissimo, non c’è niente da fare, ma la voce, bè, quella è una cosa che c’è già – è con te – e tutto il tuo lavoro è un lavoro di scavo, di lima, di espulsione del superfluo. Scusami questa cosa romantica, chi mi conosce lo sa che proprio io non ho velleità misticheggianti: però questa è una cosa a cui credo profondamente.

Che consigli daresti ai giovani autori che conservano nel cassetto un manoscritto?

Evitate i premi letterari poco raccomandabili, in Italia ce ne sono migliaia. Fatevi solo quei due o tre che contano sul serio. Con il premio Calvino – per esempio – mi andò bene e fu un’esperienza importante. Mandateli alle case editrici: non è completamente vero che non leggono, di solito sono investimenti a lungo termine, nell’ordine di un anno e mezzo. Andate alle cene radical chic e troieggiate (se donne). Andate alle cene radical chic e offrite grappini (se uomini).

Ma soprattutto fa-te-gi-ra-re. A mano, agli amici, in rete, estratti su riviste, in volantini… oggi ci sono migliaia di modi per fare arrivare le vostre cose in mano a un botto di gente: non siate gelosi di quello che avete scritto, che tanto non siete Proust. E anche Proust faceva leggere le cose scriveva, ben sapendo che non poteva fargli che bene.

Quale libro tieni nel comodino?

Adesso? Aspè che vado a prenderli… “Con gli occhi chiusi” di Federigo Tozzi, “I 49 racconti” di Hemingway, “Zig Zag” di Enzensberger, “Reale e virtuale” di Maldonado, i “Minima Moralia”, due copie del mio libro, “Giallo Mattei” di tale Nico Perrone, “Esperanto” di Fresaàn che devo restituire a Gianluca (Colloca, scrittore e amico, ndr). Sono quelli che mi sono rimasti fuori dal trasloco, gli altri stanno tutti inscatolati. Spero che non fosse domanda retorica questa…

Cosa fai attualmente?

Mi occupo di tv, scrivo su un giornale e gioco molto a Doom 3.

di Flavia Piccinni