Impressioni sul Falstaff

Ottobre 16, 2007 in Spettacoli da Stefano Mola

INTRO

Il Falstaff che ha aperto la stagione 2007-2008 del Teatro Regio di Torino è uno spettacolo fatto di una grande e omogenea compagnia di canto, supportata da un’orchestra in forma smagliante, diretta magistralmente da Gianandrea Noseda. Il tutto davanti a una scenografia essenziale, creata da Pier Luigi Pizzi, funzionale, che non cerca di mostrare per stupire ma piuttosto per accompagnare. Ecco. Cosa potremmo volere di più da un paio d’ore passate a teatro?

Dovessimo scegliere una sola parola da mettere su un’etichetta, diremmo armonia. Non c’è alcuna sensazione di sbilanciamento. Tutte le componenti sono dove devono essere: non c’è l’occhio che prevale sull’orecchio, il canto sulla musica. Un risultato niente affatto banale, e mio parere, molto difficile da ottenere.

LA MUSICA

Falstaff - scenografiaMa se mi costringessero? Se mi dicessero: no, adesso puoi prendere solo una cosa. Devi scegliere: i cantanti, o la scenografia, o l’orchestra e la direzione. Con molta fatica e rimpianto, direi: la busta numero tre. L’orchestra del Regio mi è parsa assolutamente smagliante, prontissima, capace sotto la direzione del maestro Noseda di chiari e di scuri, di cambi di volume sonoro prontissimi, sorprendenti, nitidi. Di saper dosare perfettamente la rapidità. Come si è già detto in sede di presentazione, Falstaff non è un’opera in cui sono protagonisti i piedistalli. Sono pochissimi i momenti in cui si dice: fermi tutti, ora c’è un’aria, mettiamo qua il podio, gli altri seduti, perché così c’è scritto sul manuale Cencelli della buona opera. È un fluire dove gli interventi orchestrali sono davvero protagonisti, soprattutto nei legni. Non si può parlare di sottofondo. C’è questo magma mobilissimo che s’abbassa e si solleva, che si fa presenza, come un vento.

Ed è davvero sorprendente pensare che questa è l’ultima opera di Verdi. Come ho avuto modo di scrivere in passato, non sono un verdiano in purezza. Amo moltissimo alcune cose, altre le trovo invece troppo facili. Falstaff fa parte delle prime. Mi dà una sensazione strana. Da un lato sembra una musica giovanissima, scattante, nuova, appena sfornata, che non recita il peso dei suoi anni, così che ti viene da dire: sarà un’opera giovanile. Poi ci pensi un attimo e trovi un’altra cosa: un equilibrio che invece parla di maturità, di una vista d’insieme, qualcosa che non è mestiere, è molto di più, è il canto non sopra la musica, ma insieme alla musica. I cantanti sono degli strumenti avvolti dall’orchestra. Ecco allora il salto in avanti di cui parlava Noseda durante la conferenza stampa, la capacità di Verdi di anticipare i tempi, di andare oltre, e quindi di rimanere nel tempo.

Tutto questo nella direzione di Noseda e nella bravura dell’orchestra si ritrova appieno. So bene che sembra quasi un’eresia parlare prima dell’orchestra che dei cantanti. Faccio ammenda, e dico subito che il Falstaff di Ruggero Raimondi è grande. Grande nel senso verdiano in cui è grande il Falstaff. Anche nella sua interpretazione m’è parso di ritrovare quell’insieme di freschezza e di controllo di cui parlavo in precedenza, oltre a una presenza scenica istrionica ma non prevaricante. Ottimo e giustamente emotivo il Ford di Natale De Carolis, in particolare nel suo duetto con Falstaff nel secondo atto, così come ottima l’Alice di Barbara Frittoli. Altra menzione particolare per la coppia di innamorati Fenton-Nannetta, ovvero Francesco Meli e Laura Giordano, così come mi è piaciuta moltissimo la Quickly di Elisabetta Fiorillo.

MA FALSTAFF, DI COSA PARLA?

Falstaff - Ruggero RaimondiTranquilli, non voglio fare il riassunto della vicenda. Potete leggervelo da soli qui. Si è detto che Falstaff è un’opera sulla vecchiaia, la descrizione di quel momento in cui ci si accorge che qualcosa è passato per sempre, che alcune finestre ormai sono chiuse e si deve stare a guardare dietro ai vetri. E anche, della sua accettazione. Penso a quando il protagonista torna in scena all’inizio del terzo atto, dopo essere stato scaraventato nel fiume, gabbato su tutta la linea. Quello è il punto in cui la consapevolezza del non poter più si affaccia. Eppure, non c’è rassegnazione. C’è la capacità comunque di guardare oltre, di saper scavare dentro la borsa e tirare fuori che la vita è sempre qualcosa che vale la pena vivere, che ci sono le stagioni ed è necessario saper distillare il buono da ognuna.

Però secondo me c’è anche di più. C’è la scoperta dell’ombra. Quasi tutti, in fasi diverse, si credono più furbi degli altri, e poco dopo si devono ricredere. Ecco allora lo straordinario finale fugato di Verdi, quel Tutto è burla (poteva esserci un finale musicalmente più perfetto? Credo di no). Ci dice che devi sempre stare attento alla sindrome del pavone, a non gonfiare mai troppo il petto, perché alla fine manca sempre un soldo, o più, per fare una lira. Che prima o poi arriverà sempre qualcuno che ti farà accorgere di essere meno furbo di quanto pensi. Che nella vita l’umiltà e l’ascolto degli altri sono importanti.

Il tutto montato a incastro in un meccanismo da commedia senza tempo. Non ci sono degli appigli storicamente irrinunciabili. Non è tanto importante che scene e costumi siano proprio quelli richiesti dal calendario che aveva in mente Shakespeare, ovvero la fonte originaria. Se Pizzi ha spostato tutto un po’ in avanti, e ci sembra di essere verso la fine dell’ottocento, serve anche da memento, ci fa pensare a quanto detto prima sull’anima del Falstaff.

Insomma, se il buongiorno si vede dal mattino, questa stagione appena iniziata è iniziata molto bene.

di Stefano Mola