Il mondo dei furbi
Ottobre 27, 2002 in il Traspiratore da Redazione
Qualche mese fa ho passato una brutta domenica al famoso Outlet di Serravalle. Dopo aver guadato il fiume di macchine che affollavano l’immenso e ben fatto parcheggio, sono entrato in questa mini città del negozio. Qualche bar ristorante e un festival di insegne colorate e vetrine dei più famosi marchi di moda del mondo. Un inno alla globalizzazione e, che piaccia o meno, un posto dove comprare vestiti griffati e risparmiare. I negozi infatti sono tutti quelli che adesso vengono definiti degli outlet e che una volta si chiamavano spacci aziendali: in parole povere c’è la roba delle collezioni precedenti e, proprio perché tale, è scontatissima pur essendo di qualità. Tutto bello, nuovo, pulito, organizzato. I creatori di questa città dello shopping sono due architetti inglesi, Mc Arthur e Gregor, e hanno esportato questo nuovo modo di far spesa un po’ in tutto il mondo occidentale, forti del fatto che la moda tira e che la gente spesso predilige capi “vecchi” ma firmati piuttosto che abbigliamento anonimo e dalla qualità da scoprire.
Tra commesse che sembravano modelle e aria condizionata a manetta, in ogni negozio la mia giornata è trascorsa come se fossi in un parco giochi, in mezzo ad una ressa tutto sommato sopportabile e soprattutto con l’incertezza dell’acquisto da fare, un po’ come quando ci si trova davanti a gelaterie che allineano in vaschette un centinaio di gusti e alla fine, presi dall’angoscia, si opta per un sano cono tutto cioccolato.
Ho fatto l’ultima tappa in un negozio della marca americana di jeans più famosa nel mondo. Non essendo una donna, sono privo di quell’abitudine cronica allo shopping che loro hanno scritto nel dna e così, nervoso e stanco perché non trovavo ciò che cercavo, sono uscito in tutta fretta dal camerino dimenticandoci dentro il marsupio con cellulare, 350 euro in contanti, chiavi della macchina e di casa.
Me ne sono accorto circa 5 minuti dopo, mentre mi trovavo nel negozio adiacente. Sono tornato indietro con il cuore in gola e ovviamente nel camerino non c’era nulla. Essendo con la mia ragazza ho provato a telefonarmi nella speranza di sentire lo squillo ma nulla da fare.
Credo di aver passato la mezzora più alienante della mia vita, a 200 chilometri da casa, senza soldi, senza chiavi di casa e il tutto per colpa mia e di nessun altro. Non riuscivo né a piangere né ad urlare la mia disperazione.
Oggetti smarriti nulla. Stavo scivolando nel baratro quando ripassando ancora una volta all’ufficio dell’Outlet mi è stato detto che in effetti avevano rinvenuto un marsupio. Dove? Nei bagni dello stesso ufficio informazioni. Il ladro dev’essermi pure passato molto vicino, ma tant’è, il cellulare ormai non squillava più e non riconosco le mie cose a naso come i cani. C’erano le chiavi di casa e della macchina, almeno potevo tornare a casa.
Passato lo spavento rimaneva la rabbia. Nel negozio di jeans mi ricordavo di aver visto telecamere piazzate qui e là e così sono tornato a chiedere ragguagli. Non so bene in cosa sperassi ma sapendo i minuti esatti in cui il camerino era rimasto libero e col mio marsupio dentro, m’illudevo che le telecamere mi avrebbero permesso di vedere il farabutto che usciva con i miei averi.
Il capo non c’era e la gentilissima commessa mi ha detto che non le sembrava che le immagini fossero registrate da nessuna parte, ma che piuttosto il capo le osservasse da casa grazie ad Internet. La cosa mi ha lasciato un amaro in bocca inenarrabile e a mente fredda mi sono chiesto a che diavolo servissero le telecamere senza uno straccio di registrazione, anche se poi va cancellata per privacy. Non credo che il padrone abbia a casa un paio di guardie giurate che osservano i monitor e dubito che lo faccia lui, e anche se fosse, alla prima distrazione, potrebbe succedere qualcosa che sfugge all’occhio. Succede allo stadio, quando ti chini a raccogliere il pacchetto di caramelle e segnano, vorresti il replay ma non c’è, e tu non puoi far niente per rimediare.
Ragionando durante la nottata passata insonne per aver bruciato quasi mezzo stipendio e maledicendo il giorno in cui non ho più voluto il bancomat, sono arrivato ad una conclusione grave che spero di riuscire a denunciare grazie a questo articolo. Se avessero rapito un bambino invece di un marsupio o se un pazzo avesse accoltellato qualcuno nel camerino (dove non c’è la telecamera per ovvie ragioni) e fosse uscito tranquillamente dal negozio? Come si sarebbe giustificato il Levi’s store? Non c’è obbligo di aver le telecamere, siamo tutti d’accordo, ma se ci sono e non registrano a cosa servono? Forse a controllare che i dipendenti non rubino, non dormano o non fumino?! Già, perché in quel caso non c’è bisogno di registrazione, anzi sarebbe un tantino illegale e poi si può dare una controllatina ogni tanto o nei momenti in cui si è assenti o si sospetta qualcosa.
Spero che questo mio sproloquio sia letto da qualcuno, sindacalista, poliziotto, garante della privacy o dai padroni del Levi’s store magari, anche perché è impossibile scrivere direttamente a loro via mail. Non cerco giustizia per carità, sono stato un pirla e va bene così, non ho neppure fatto denuncia alle autorità, sbagliando un’altra volta, però mi piacerebbe molto avere una risposta alle mie semplicissime domande.
di J. Gasperi