Gangs of New York
Gennaio 30, 2003 in Cinema da Redazione
“Gangs of New York” di Martin Scorsese, con Leonardo Di Caprio, Daniel Day Lewis, Cameron Diaz, Liam Neeson, Jim Broadbent (Usa, 2002)
Che Martin Scorsese non abbia mai risparmiato la salsa di pomodoro è risaputo, così come sono arcinoti il suo amore per le storie a tinte forti, il suo talento visivo, la sua disinvoltura nel passare da un genere all’altro. Aiuto regista per il documentario “Woodstock” nel 1969, Scorsese approdò alla regia proprio in quell’anno con “Chi sta bussando alla mia porta”. Da allora, in oltre trent’anni di carriera, il regista di Long Island ha esplorato i generi più differenti distorcendoli con il suo personalissimo stile. Uno stile fatto di simbolismo, di utilizzo metafisico di elementi fisici e, per contrasto, di sovraesposizione della fisicità, della brutalità, della violenza. Molti hanno sottolineato come “Gangs of New York” sia, fra i film di Scorsese, uno dei più violenti. E’ vero. Il regista d’altronde si è giustificato facendo notare a più riprese come, proprio da questo brodo primordiale fatto di razzismo e sopraffazione, siano nati gli Stati Uniti d’America.
“L’America è nata nelle strade”. Il sottotitolo sintetizza brillantemente i 168 minuti di pellicola con i quali Scorsese ha finalizzato un’intuizione narrativa vecchia di trent’anni. E’ stato un lavoro impegnativo: fra riprese e montaggio Scorsese vi ha speso tre anni della propria carriera e, diciamolo, ha buttato sul tappeto verde la sua credibilità con un progetto faraonico.
L’impressione è di trovarsi davanti ad un capolavoro mancato, ad un’opera che probabilmente, nonostante la sua lunghezza, ha patito oltre misura i tagli imposti dal produttore Harvey Weinstein che ha accorciato il film di un’ora. Non siamo in possesso delle controprove, ma guardando alla storia del cinema (prendiamo come esempio “C’era una volta in America”) è facile presumere che la sottrazione di quei sessanta minuti abbia privato gli spettatori della vera visione d’insieme di un regista che non ha nulla da imparare.
La grandezza di Daniel Day Lewis rimane indiscutibile. Bill il Macellaio è sicuramente il personaggio che rimane più impresso al termine di questa epopea dell’America che fu. Non ci sarebbe da stupirsi se l’attore inglese dovesse vincere un secondo Oscar dopo quello assegnatogli una decina d’anni fa per “Il mio piede sinistro”. Scorsese (che già lo guidò ne “L’età dell’innocenza”) è stato, insieme a Jim Sheridan, il regista che meglio di ogni altro ha saputo tirar fuori il suo smisurato talento. Abituato da una vita a ruoli positivi, Lewis si cala nel suo terribile William Cutting con una maestria che fa sbiadire la performance attoriale di Leonardo Di Caprio.
Il biondo, reclutato da Scorsese dopo il bagno di celebrità di “Titanic”, se la caverebbe anche bene, ma a tradirlo è una trama che s’inceppa più e più volte proprio sul suo personaggio. Dopo essere stato sfigurato per l’eternità dal Macellaio il nostro eroe viene amorevolmente curato da Cameron Diaz (per l’occasione in versione hayworthiana). Miracolo! In men che non si dica la cicatrice “indelebile” tracciata sulla sua guancia dal coltello del supercattivo se ne va e il suo volto torna ad essere quello di un divo di copertina. L’amico traditore lo ha venduto al nemico comportandosi da Giuda? Basta un “Dovrei ucciderti” e tutto torna come prima. La risoluzione a tarallucci e vino diminuisce i tempi in una storia che ha un epilogo serratissimo e ricco di eventi. Difficile dire una parola definitiva. Forse bisognerà aspettare una ventina d’anni quando qualche pazzo produttore deciderà di omaggiare Scorsese nel suo 80° giubileo riproponendo il director’s cut di “Gangs of New York”. C’è tempo.
di Davide Mazzocco