Eugenio Finardi per Traspi.net

Dicembre 5, 2001 in Musica da Gino Steiner Strippoli

25180(1)Eugenio Finardi, un grande cantautore dalla dimensione intima, che spesso accetta i concerti fuori dagli schemi dei teatri e dei tour ufficiali preferendo il contatto viscerale con un pubblico che ti respira addosso.

Primo vero rocker di casa nostra, fu l’inno giovanile degli anni ’70 e “Sugo” ne fu uno dei momenti chiave della canzone italiana doc degli stessi anni, dove testi chiari e puliti si amalgamavano con le sonorità rockeggianti.

“Non sono affatto un cantautore…sono il mancato cantante di un mancato complesso”, era il 1981 quando la semplicità di Eugenio Finardi mi colpi durante un intervista. Il tempo scorre, scorrono gli anni ma l’immagine “ribelle” di Finardi sembra non conoscere tramonti sebbene negli anni la sua musica, il suo modo di fare canzoni abbia esplorato altre tensioni nella sua poetica. Di recente a Torino, al Folk Club in un concerto acustico, delizioso, abbiamo scambiato quattro chiacchere, come due “vecchi” amici che non si vedono da tanto tempo.

Eugenio anni fa dicesti una cosa curiosa: “non sono affatto un cantautore, sono il mancato cantante di un complesso mancato” era il 1981, oggi alle soglie del 2002 come vedi quell’affermazione?

Che volente o nolente sono diventato un cantautore, e devo dire con abbastanza piacere, però quando ho detto quelle cose essere un cantautore era diverso, per fortuna, e anche per merito mio sono riuscito in parte a fare in modo che i cantautori fossero il 50% musica e la restante percentuale parole, prima invece si era indirizzati verso l’80% nelle parole e solo il 20% nella musica come quando iniziai.

Sei sempre ricordato per la tua rabbia positiva, rock, che ha caratterizzato un po’ tutto il tuo percorso musicale, il tuo amore per il blues poi è unico…

Si il blues è quello che canto per scaldarmi, non è l’unica cosa ma è la prima cioè prima di scrivere canzoni mie, prima di cantare altre cose, a parte la musica classica, ho sempre cantato il blues. Da bambino cantavo il classico, mia madre era una cantante lirica e quello c’è l’ho nel DNA , pensa che oggi lo applico nei posti più strani anche se solo come tecnica di respirazione, però appena ho potuto scegliere, intorno ai 12 –13 anni, è stato il blues il primo amore.

Oggi mi sembra che ci ritorni con un lavoro nuovo!

E’ vero, sta per uscire il nuovo disco, edito dalla Edel, che è un po’ anomalo per un cantautore come me, è una collezione di Fado, registrato insieme a Francesco Di Giacomo del Banco, un chitarrista che si chiama Marco Poeta, l’unico italiano che suona la chitarra portoghese, e una brava cantante, Lisa Ridolfi. Con quest’uscita discografica porteremo in tourneè il blues di fado, che è poi il blues portoghese, molto particolare, molto tradizionale. E’ una strana deviazione dalla mia vita da cantautore. I pezzi contenuti nell’album sono quasi tutti scritti da Amalia Rodriguez, io li canto in italiano mentre Di Giacomo li canta in lingua portoghese. C’è una tua canzone con cui tradiresti le altre? Si, c’è una canzone che amo in maniera particolare ed è “Amore Diverso” perché l’ho scritta nella culla di Elettra, la mia prima figlia, e quindi ha un valore particolare. Questa è una canzone che anche fisiologicamente nel concetto non mi affatica cantarla anzi mi riposa la voce, è molto ZEN, mi mette a fuoco.

Tu ti sei affermato con il rock di Musica Ribelle, un inno giovanile degli anni ’70, un inno senza tempo…

E’ stata una bandiera. Musica Ribelle è una di quelle canzoni che ti definiscono, in un certo senso mi ha costretto ad essere sempre ribelle anche se poi ho una grande vena melodica, un grande amore per la melodia. Devo dire che sono stato fortunato nel senso che altri miei colleghi, che hanno iniziato col melodico e che hanno un grande amore per il rock, quando hanno provato a fare rock non sono stati creduti. La fortuna di uno come me e di uno come Zucchero e che invece noi siam partiti dal rock ed ora siam creduti per tutti e due i momenti.

Tu hai fatto parte di un grande progetto musicale, quello della Cramps, come mai oggi non c’è più nessuno che possa ripeterlo?

Quello era un progetto nato in un periodo particolare, quello degli anni ’70. Oggi l’atteggiamento industriale delle case discografiche si è trasferito in ogni genere, anche nell’alternativo, nell’underground, nel rap. Nel progetto Cramps l’industria invece serviva a sostenere una ricerca, un discorso culturale che oggi sarebbe deriso. Sarebbe ridicolo pensare di fare oggi delle cose e venderle per fare poi altre cose più strane, più fuori di testa. Adesso si devono fare solo cose che si devono vendere tantissimo e tutto quello che è appena sotto questa soglia viene abbastanza lasciato perdere.

Infatti molto tuoi album non sono poi stati molto capiti dalle case discografiche…

Diciamo che il mio discorso rispetto al mercato è sempre stato molto sfortunato, dopo la Cramps il mio rapporto con la discografia è sempre stato strano, forse io non sono mai riuscito a dar loro il tipo di singolo che avrebbero voluto per il successo radiofonico e quindi le case discografiche non hanno mai saputo trattarmi come prodotto, automaticamente è venuta a mancare la promozione che serviva. È una carriera molto anomala , la mia, nel senso che credo che ci sia poca gente in giro che ha 20 album all’attivo, tutti pubblicati, editi e ancora ascoltati, ma mai nessuno entrato nei primi dieci in classifica, questa è una cosa molto strana!

Qual è il tuo significato personale di musica?

La musica è l’arte più viscerale. Io credo che sia l’arte alla quale l’uomo sia più predisposto, c’è una parte del nostro cervello che è deputata a contenere canzoni, a contenere melodia, musica, ed è una parte molto grossa della nostra memoria infatti noi ci ricordiamo una quantità di canzoni dei Jungle dei prodotti pubblicitari, siamo in grado di riconoscere e di ricordare e contenere, per anni e anni, le cose più incredibili. Ci svegliamo magari con una canzone in testa oppure ci capita sovente di essere ossessionati da una canzone che ti circola in testa per mesi, la stessa cosa non avviene per i quadri, nemmeno per i libri, per i film, quindi è evidente che la musica risponde a qualche bisogno primario. In 50 mila anni di evoluzione dell’Homo Sapiens, se c’è una parte del nostro cervello così profondamente toccato dalla musica vuol dire che la musica risponde ad un bisogno preciso, anzi vorrei prima o poi chiedere ad un neurologo come mai ci ricordiamo così tanta musica.

di Gino Steiner Strippoli