Eliselle per Traspi.net
Marzo 8, 2006 in Libri da Redazione
Intervista a Eliselle, autrice di Ecstasy love.
Un titolo originale quello del romanzo che parte da un trasferimento. Dall’abbandono della città per arrivare alla campagna, dal lasciare un ambiente apparentemente caotico per una campagna tenebrosa. Da dove parte quest’idea di ambiente bucolico corrotto e corruttore?
E’ stato un modo per remare contro a una certa mentalità che vede nella campagna il luogo tranquillo per eccellenza, privo di intrighi, dove non accade mai niente di interessante, e al contrario vede la città come luogo di perdizione e covo di tutti i mali. Ho voluto sfatare quello che ritengo essere solo un luogo comune, che ho demolito attraverso la storia della protagonista, un’escalation drammatica che va completamente fuori controllo. I suoi genitori sono contenti e convinti che tutto vada bene, ma in realtà non è così. Questo per dire che non è l’aria che si respira o l’ambiente in cui si vive a rendere equilibrate le persone. Anche quelle più insospettabili, a volte, possono celare una parte oscura.
Quanto ha influenzato il tuo essere Emiliana e quanto c’è di autobiografico nel romanzo?
Ho ambientato il romanzo nei posti che ho visto e vissuto e che conosco bene. L’Emilia fa parte di me, o meglio, io faccio parte di Lei ed è naturale che atmosfere, parole, sapori, spirito tipicamente emiliani siano usciti dalle mie dita quando ho scritto Ecstasy love. Me lo auguro. Mi sono ispirata alle serate che ho vissuto da ragazzina, ma ho raccolto anche parecchia documentazione, fatto interviste, per ricreare al meglio quegli anni attraverso altri punti di vista diversi dal mio. Per non rischiare di farlo diventare autobiografico. Per distaccarmi e creare una storia che avesse anche colpi di scena ispirati alla letteratura cannibale, che amo molto.
Come vivi il crescente successo della tua regione, sfondo preferito di cantanti, Ligabue in primis, e della letteratura – penso adesso al buon esordio di Marcella Menozzi con “Bianco”?
Non può che rendermi felice. E’ bello vedere valorizzata una regione come questa, ricca di storie da raccontare, di talenti emergenti e già affermati. Io cerco di dare il mio contributo per quello che posso, nel mio piccolo. C’è di bello, poi, che se qualche progetto non va come ti eri aspettato, basta trovarsi con gli amici più cari davanti a un piatto di Tortellini e a un bicchiere di Lambrusco, e la delusione passa così in fretta che non la si sente più.
Un romanzo che si può leggere in modi diversi. Modi diversi che hanno un protagonista sempre differente. Francesca, la droga, la campagna Emiliana, il gruppo, la famiglia, il disagio. Come nasce questa idea di romanzo “stratificato”? Qual è il protagonista che senti più tuo?
Sicuramente Francesca, la protagonista, la sento più mia. Tutto parte da lei. Ma ho cercato di dare spazio anche agli altri personaggi, sebbene siano minori, perché i messaggi sono diversi, e le chiavi di lettura differenti a seconda di come lo si legge. Il sabato sera vissuto con due filosofie opposte, il dualismo Bene e Male, ma anche vecchia e nuova generazione a confronto, l’amore e l’amicizia con due lati della medaglia, e prima o poi si incappa nel lato sbagliato. Francesca è la chiave. Ma la chiave potrebbe anche essere Gino, il vecchio che ogni tanto dispensa detti e consigli in dialetto reggiano stretto. Qui sta al lettore decidere.
La droga, quella delle canne e delle pasticche, quella che ti entra dentro e non ti fa più ragionare – a partire dall’audace titolo. La tua scelta però è quella di mettere in scena una ragazza, Francesca, che non ne vuole sapere di entrare in un mondo che sente non suo, ma che non è abbastanza forte per uscirne. Da dove nasce questa idea di generazione debole e allo stesso tempo coraggiosa?
La paura più grande di un adolescente è quella di essere escluso dal gruppo. Si veste come gli altri, entra nel branco, perché quello che lo muove è il terrore di rimanere isolato. Quando questa paura degenera e non c’è nulla (nemmeno i genitori) che riesce a darle un freno, ecco che si crea un problema. A volte anche pericoloso e drammatico. C’è chi è forte e ne sta fuori, c’è chi è debole e ci entra dentro, e c’è invece chi capisce dov’è il limite ma rimane in bilico senza sbilanciarsi, senza scegliere da che parte stare, perchè manca del coraggio di fare il passo definitivo, perché decidere comporta una responsabilità. E così sta nel mezzo, sperando che qualcosa cambi. Spesso invano. Francesca è un personaggio sempre in bilico, ne è quasi costretta.
Un racconto caratterizzato da una particolare attenzione verso quello che ci circonda. La vita del gruppo, con le sue dinamiche interne e i suoi crescenti problemi, ne è solo un esempio. Come si sviluppa questa attenzione per i particolari della vita quotidiana?
Mi piace osservare, ascoltare. In gruppo sono spesso taciturna. Preferisco sentire parlare gli altri. Mi metto in silenzio a guardare la gente. Lo facevo fin da piccola, è sempre stata una mia caratteristica. Ero timida, e me ne stavo in disparte, il più delle volte. Credo che questa parte del mio carattere, anche se durante l’infanzia mi ha creato problemi a relazionarmi col mondo, mi abbia aiutato a sviluppare una vera e propria passione per l’osservazione. Non tutto viene per nuocere!
Particolare attenzione viene riservata anche al rapporto genitori/figli. Al dramma, quello di Francesca, con i genitori che la trascinano dall’ovattato mondo cittadino in campagna, dove la ragazza si abbandona e risolve. Come ti sembrano gli adolescenti d’oggi? Hanno influenzato, il tuo racconto, quanto e come, il tuo rapporto con i genitori?
Gli adolescenti di oggi sono smarriti. Non riuscirei a trovare altro termine. Le cose sono cambiate, da quando avevo diciassette anni io. Dieci anni non sono pochi, ma trovo che non si stia affatto migliorando. C’è troppa ingerenza da parte dei media che propongono modelli superficiali e distolgono dai reali problemi, che non si risolvono certo comprando l’ultimo modello di cellulare o facendosi qualche viaggio chimico al sabato sera. E d’altra parte c’è troppo poca presenza dei genitori, che sembrano sempre più distratti e assenti. Questo generalizzando, ovviamente. Tutti si impicciano di tutto, ma mai che si affrontino argomenti seri, stringi stringi non si combina niente. Coi miei genitori ho sempre avuto un rapporto conflittuale, durante l’adolescenza, ma almeno si parlava, si discuteva, ci si confrontava. I genitori della protagonista invece, sono lontani da lei e dal suo mondo, forse chissà, si sentono in colpa per averla trascinata lontano dalle vecchie amicizie. Il senso di colpa può influire assai negativamente su certe dinamiche famigliari.
Grande rilievo nella tua prosa ha il linguaggio. Immediato e diretto, semplice – ma non minimale. Come nasce questo semplice e moderno modo di comunicare?
Nasce dal desiderio di farmi capire, di arrivare a tutti. Qualcuno ha detto che sono una “scrittrice di dialoghi” è l’ho trovato un grande complimento. La scrittura è un mezzo di comunicazione importantissimo, per me, per questo deve essere accessibile, arrivare a più lettori possibili. Credo che, proprio per questa semplicità e spontaneità, questo libro sia interessante sia per i ragazzi che vorranno leggerlo, ma anche per i genitori, perché forse attraverso la lettura capirebbero che non sempre sono davvero capaci di interpretare i segnali attorno ai loro figli. E
’ tutto così complicato, a volte, che trovo fondamentale renderlo in modo chiaro e diretto, senza troppi giri di parole.
Degna conclusione del romanzo di formazione che tale non vorrebbe apparire – ma che raccoglie in sé una crescita, una maturazione – è il detto emiliano del contadino Gino. Un dialetto emblema del legame con le proprie radici che esprime il bisogno di guardare avanti. Perché? E’ anche la tua visione del mondo?
Perché è una necessità. Possono ferirti, farti del male, possono coprirti di infamia e di insulti. Possono usarti e buttarti via. Pur provando dolore, quello che rimane sei sempre tu. Sei tu che devi rimboccarti le maniche e andare avanti. Devi tagliare i rami secchi, attraverso una grande sofferenza, ma trovo che sia l’unico modo perché la pianta diventi più rigogliosa alla prossima fioritura. E’ anche la mia filosofia di vita. In barba a detrattori e invidiosi. E a chi non impiega il suo tempo in attività più costruttive.
Mossa audace è quella di allegare al libro un cd. Interessante quanto quella di realizzare in fondo un mini-glossario delle droghe più diffuse e delle sensazioni che provocano. Una semplice provocazione o una nuova idea di libro?
Quella è stata la mia documentazione (necessaria) mentre scrivevo Ecstasy love. Mi sono presa delle licenze, di tanto in tanto, ma la base è assolutamente seria, medica. Dovevo metterla. Può essere vista come provocazione ma anche, perché no, come prontuario. Ho notato che le abitudini in dieci anni non sono cambiate molto, tra i ragazzi. Mettiamola così, il messaggio del mini glossario può tranquillamente essere questo: ora che ti sei goduto la storia, leggi qui e vedrai che non mi sono inventata (quasi) niente di quello che succede in giro, quindi tieni gli occhi aperti, può tornare utile conoscere bene certe informazioni.
Hai creato, con Alex Baraldi le musiche. Come è nata l’idea di fare questa colonna sonora al tuo libro?
E’ nata per caso, in una serata di cazzeggio, come spesso succede coi progetti a cui ti affezioni di più. Alex è un amico, un musicista e produttore davvero in gamba, stavamo parlando di Ecstasy love e mi ha fatto i complimenti per la storia: così mi si è accesa una lampadina, e gli ho proposto di creare una colonna sonora. Di utilizzare ispirazione e testi dal mio libro per crearne le musiche ideali. Un omaggio agli anni Novanta. Il risultato sono cinque pezzi inediti, uno dream, che amo alla follia, e gli altri più trance e techno. Da ballare e non solo. La musica è importante, per me lo è sempre stata. Un modo per abbinare parole e musica, per aprire altri canali.
di Flavia Piccinni