Due ore nell’antro di Porchietti
Febbraio 12, 2003 in Medley da Redazione
Chi lo studio se lo fa in un loft, chi in un eremo tra i colli toscani. Corrado Porchietti, invece, ha scelto un “antro” piccolo e protetto in via della Rocca, nel cuore della città, ma fuori dal mondo. Inizia qui, da un portoncino per niente vistoso che dà su un cortile lastricato, il nostro piccolo viaggio dentro il suo regno incantato. Dopo un cancello di ferro battuto, una porta immette in pochi, freddi, metri quadri che sono ben più di uno studio: un microcosmo che è lo specchio di Corrado, dei suoi interessi, delle sue esperienze di vita, delle sue piccole manie. Un po’ bottega di rigattiere, un po’ baule di una nonna hippy, da cui escono sogni e storie, mille oggetti che la vita è andata a posare con indolenza, per terra, su mensole, tavoli, davanzali, sedie, dentro scatole, sulle pareti scrostate. E questo mondo in technicolor ti interroga e ogni oggetto in cui si imbatte il tuo sguardo sembra reclamarti per raccontare la sua storia. Una gabbietta, un vecchio busto su cui si è posato un basco infeltrito, foto un po’ fané, libri, vecchi giornali, uno scolapasta di ceramica, due valigie retrò reduci da chissà quale viaggio lontano, due piante grasse che hanno visto tempi migliori, ormai spettri sotto la polvere. E tanti, tanti, ma tanti tubetti e grumi di colore, ciotoline, pennelli, stracci. Ogni oggetto, dice il “mago” nel suo regno, è un ricordo, un pezzettino di vita che deve rimanere dov’è, non profanato da nessuno: anche la polvere racconta, toglierla sarebbe un delitto.
Ad ogni angolo, come in una composizione Dada, sveglie, automobiline, mozziconi, un vecchio phon, post-it e cataloghi aperti da chissà quanto tempo proprio su quella pagina. E su un tavolino, soffocato da mille altre cose che incombono in precario equilibrio, un busto di fanciullo, sotto il berretto da ufficiale della Grande Guerra, guarda pensoso la copertina dell’edizione einaudiana del sublime Rimbaud. Il visitatore curioso vorrebbe spostare quel posacenere, aprire quella scatola di cartone, ma una ragnatela trattiene la mano sacrilega. Qui, in questo ammasso d’antan, inscritto tra vecchi tappeti, due sofà ricoperti di velluto rosso, tendaggi opachi e specchi appannati, nasce, via dalla pazza folla, la pittura di Corrado, classe ’50, allievo, all’Accademia, di Piero Martina e ora insegnante al liceo artistico Cottini. Pittura narrativa, ora cupa, ora prorompente di colori: il rosa, il verde, il viola, oggi il nero. Un’arte che è fatta con pennelli e colori, l’acrilico, l’ormai onnipresente carbone, il pastello, l’olio. Arte come ironia e autoironia, come scoperta dentro di sé del già visto e già detto: come quella faccia già vista di donna appena dipinta che poi si rivela identica alla faccia del marinaio dell’amatissimo Otto Dix, un genio assoluto per Corrado che adora l’Espressionismo e la Germania tra le due guerre (nazismo escluso, ça va sans dire). L’arte che è stata piacere e compagna di anni di amori e bisbocce e ora è fatica, pena, ma anche entusiasmo (nel senso etimologico di “possessione divina”), narcisismo di cui subito pentirsi e fare ammenda con La morte di Narciso in cui il pittore contempla la propria immagine specchiata dentro una candida latrina.
Dalle tele accatastate “escono” l’amica Claudia, i trenini e soldatini con cui Corrado confessa di aver giocato ancora grandicello, caffettiere, uova al tegame, corsari neri accasati e imborghesiti, i momenti dolorosi superati, gli scherzi con gli amici, un quadro di Francesco Casorati amabilmente citato in un angolino e tutto un repertorio di “buone cose di pessimo gusto” che dalle superfici irrompono in questo strano spazio esotico eppure familiare; come quel tigrotto di peluche che sembra appena partorito dal gran polittico appoggiato alla parete (L’appartamento ovvero la porchietteria, 1979-80), stipato di tutti gli oggetti che un bravo borghese piccolo piccolo può, o poteva negli anni ‘70, desiderare, copritelefono di velluto e passamaneria inclusi. Due ore volano tra ricordi estemporanei, risate, numerose sigarette, qualche amara considerazione sugli artisti torinesi ignoti, quelli che non fanno parte dell’eletta schiera dei mostri sacri dell’Arte Povera ormai museificati né della nouvelle vague dei videoinstallatori “che fanno tendenza”; insomma quegli artisti che si ostinano a dipingere con tela e pennello, per niente virtuali, quasi vergognosi perché nessuno li ha ancora “arruolati” nell’Empireo di una qualche post- o neo- o e- o non-@rte. Però però, a ben pensarci, la definizione di Pittura Mediale potrebbe attagliarsi a certi quadri degli anni ’70-80 di Corrado Porchietti, popolati di balocchi e televisori da cui vengono incontro, sfrecciando allegramente in auto, Pippo e Topolino. Chissà… Intanto l’amato Paolo Conte, in una bellissima tela “notturna” appoggiata al muro, strappa al piano le note struggenti di un Tango santo.
di Maria Grazia Alemanno