Due destini | Sudate Carte Racconti I edizione
Gennaio 27, 2003 in Sudate Carte da Redazione
“Prossima fermata C.so Duca degli Abruzzi – Politecnico”.
Dopo più di quattro anni non ne posso più di questa voce odiosa che ogni mattina mi invita a scendere dal tram per andare all’università. Soprattutto ora, ai primi di Giugno, è diventato insopportabile alzarsi, vestirsi, soffocare in un 10 sovraffollato per seguire noiose lezioni al Poli e poi tornare a casa, studiare per paura degli esami fino a tardi, andare a letto e continuare domattina per alzarsi e ritrovarsi imbrigliato nella routine a 22 anni.
È una giornata troppo calda per rimanere in un aula soffocante, troppo luminosa per stare curvi sotto un neon tremolante, troppo estiva per studiare.
Lasciarsi cullare dolcemente dalle onde del bagnasciuga, addormentarsi al sole, correre sulla spiaggia e poi tuffarsi in acque cristalline… questa è la mia estate, non questa grigia prigione fino a fine Luglio! Al solo pensiero di entrare mi viene la nausea! Cosa posso condividere con ragazzi viscidi e mollicci come il mollusco in coda davanti a me? Flaccido, già pezzato di prima mattina, con sguardo alienato fissa qualcosa fuori dal finestrino o forse con impazienza aspetta la prossima fermata per precipitarsi a lezione… è già in ritardo, poverino! Non dovrà attendere a lungo per poter posare finalmente il suo culo grosso su quelle odiose panche: le porte si aprono, si scende, inizia una nuova fottutissima giornata…
Faticavo non poco a camminare, ogni passo era goffo e impacciato e mi sentivo ridicolo mentre scendevo con quell’andatura ciondolante.
Le piastre metalliche del bavero mi pesavano sulle spalle e la lunga spada che pendeva dal fianco mi intralciava i movimenti. Ritornare dalla torre dopo averla salutata per l’ultima volta prima della battaglia stava diventando faticoso, troppo faticoso!
Avevo passato intere giornate ad allenarmi indossando l’armatura di mio padre, ero abituato al suo peso, ma ora non riuscivo neanche a respirare in quella maledetta trappola di metallo!
Un incubo… scalini, ancora scalini. Una spirale vorticante scendeva trascinandomi verso il cortile dove l’esercito era pronto a partire, verso l’inferno.
Mancava l’aria in quello stretto corridoio, mancava l’aria chiuso in quella nera corazza. Preso dal panico cominciai a sudare, la vista lentamente iniziò ad annebbiarsi e il respiro si fece affannoso. Brancolavo nel buio cercando un appiglio come un cieco cui hanno tolto il bastone. Scivolai su uno scalino umidiccio, caddi come se mi stessi buttando a terra. Rimasi rannicchiato in un angolo nell’oscurità.
Ho paura… Non voglio morire oggi…
Non voglio morire qui dentro! È assurdo! È più di un’ora che aspetto!
L’aria della segreteria è terribilmente viziata e il caldo di Torino completa l’opera. Rimanere in coda per un misero foglio di carta mi sembra davvero un’ingiusta tortura e come se non bastasse quel ragazzo asfisiante è ancora davanti a me!
I pochi capelli, unti e spettinati, scivolano mollemente sulla fronte imperlata di sudore e la sua camicia bianca infilata nei jeans, fastidiosamente appiccicaticcia, lascia intravedere un’orribile canotta della salute… ripugnante!
Io sono diverso! Sento… so di esserlo! Ho altri interessi oltre al Poli, ho una vita sociale, leggo libri di poesie, faccio sport, questa sera andrò a ballare con gli amici… io vivo! Non siamo tutti così… ma allora perché spesso veniamo stereotipizzati? Perché la gente si sente più sicura se ogni persona che incontra è perfettamente incasellata e inquadrata! Perché è più facile accettare luoghi comuni che scoprire diversità!
Ma è inutile arrabbiarsi… Questa coda mi sta facendo sclerare per niente. Non ne posso più… non vedo l’ora che arrivi stasera…
Sarò ancora vivo questa sera?
L’esercito si era schierato sulla cima della collina dominando la valle sottostante, il mio cavallo sbuffava fiutando l’aria immobile e soffocante.
Una lunga fila di armature luccicava al sole e gli innumerevoli giochi di luce riflessa dalle spade e le lance ravvivano la scena. Sotto gli elmi e dietro gli scudi mille occhi per mille pensieri, facce tristi o spaventate, visi induriti da molte battaglie e cicatrici non solo sul cuore.
L’attesa snervante sotto il sole di Giugno stava fiaccando l’animo dei soldati.
Una goccia di sudore scese lenta dalla fronte per rigare il viso fino al mento e poi staccarsi lentamente. Si moriva di caldo. Tremavo. Avevo freddo. Un lungo squillo di tromba. Dall’alto di un nodoso ramo un pettirosso si alzò in volo silenzioso. Inizia la battaglia…
In meno di cinque minuti ho già ricevuto due gomitate nelle costole e un pestone sul piede sinistro, il destro attende geloso! È impossibile sopravvivere sul 10 delle 14.30!
Ragazzini zainomuniti e gentili vecchiette cariche di buste si ammazzerebbero per un posto a sedere o comodi appigli! L’afa del primo pomeriggio mi toglie il respiro, non riesco a muovermi in questa massa di corpi mischiati! Continuo a sudare, sballottato e pressato ad ogni frenata cerco di farmi spazio… Dov’è l’uscita? Non ce la faccio più! Voglio scendere!
Scappare… davvero più non potevo ora.
Tagliai di netto la testa del primo lanciere che mi venne incontro.
Perché tutto questo?
Anche il secondo lanciere cadde.
Scusami!
Un sordo rumore di ossa rotte venne dalla testa schiacciata di un fante finito sotto il mio cavallo.
Pietà!
Chiazze di sangue sparse sull’armatura come nere stelle, suoni confusi, grida strozzate di morte e vittoria.
Non voglio!
Avanzavo tra le schiere nemiche in testa alla cavalleria, non udivo niente, non provavo dolore, sentivo solo il battito del mio cuore: sempre più forte, sempre più veloce, sempre più assordante. Un ritmo tribale per una danza di morte.
La mia spada vorticava sopra le teste, sopra le vite, sopra i destini sconosciuti di uomini mai visti e senza mai posarsi troppo sullo stesso fiore come un’ape golosa assaporava il suo nettare avidamente e con infinita dolcezza.
Combattevo senza ragione e senza un perché oltre la semplice sopravvivenza: un pazzo dai lineamenti distorti dalla furia, una maschera teatrale contratta in una tragica espressione. I lunghi capelli neri bagnati dal sudore scendevano a ciocche lungo il viso rigando di nero la mia pelle bianca come dipinti di guerra di antichi guerrieri o nere lacrime di ricordi passati.
Secondi, minuti, ore… Non esisteva il tempo in quella dimensione dove tutto era istantaneo come la morte e fugace come il battito d’ali di una farfalla.
Cavalcavo tra le fila avversarie simile a demone infernale, il sangue colava dalla fronte misto a sudore, lo sguardo cercava gli occhi del mio solo nemico…
Davanti a me, con quel sorriso appena accennato continua a guardarmi.
E’ più di due ore che continuo a ballare ma solo ora mi accorgo di lei.
Fumi chimici, vapori alcolici e perdo me stesso in viaggi senza tempo e senza ragione, lunghe corse fino a scoppiare, grida euforiche e gesti inconsulti. Completamente sudato ritorno e riparto veloce senza meta seguendo ritmi incessanti di musiche assordanti finché non mi fermo a guardarla, affascinato, incantato.
È bella, molto bella. Una rara bellezza quasi esotica che attira e risveglia fantasie segrete… Soffermarsi a guardare le sue labbra socchiuse, fissare i suoi occhi appena truccati e scambiarsi silenziosi messaggi, fugaci gesti.
Mi attira quello sguardo quasi malinconico, velato da antiche tristezze o forse solo spaventato, come se da sempre temesse o aspettasse di vedermi.
Mi avvicino, le sorrido, le parlo…
Non potevo immaginare la sua reazione, non avrei mai creduto possibile una simile risposta.
Avanzò sicuro verso il fendente che scendeva da destra e impugnando la sua arma con la sinistra scivolò sotto la mia spada per poi attaccare nuovamente alle spalle rigirandosi di scatto.
Davvero rara maestria in quella danza, quasi poesia nei suoi movimenti.
Dallo stagno muto un pesce guizzò fuori imprevisto per ritornare in acqua. Si spensero le onde e tutto tornò immobile.
Senza voltarsi se
ne andò veloce com’era arrivato e io rimasi lì, a terra…
Un caldo abbraccio mi avvolge, una carezza infinita, un bacio geloso per non dover condividere quei momenti con un altro.
Sdraiati sul letto nel suo corpo mi perdo, dimentico tutto, svanisce la stanza intorno e soli rimaniamo tra stelle lontane. Assaporo il momento tra dolci profumi e del suo calore s’impregna la pelle. Veloce nel petto batte il suo cuore mentre ansimando, ancora una volta, chiude gli occhi rapita.
Improvviso aumenta il ritmo e travolti anche noi continuiamo ad amarci come se da ormai troppo tempo fossimo stati privati l’uno dell’altra, finché quel moto ondulante cadenzato dai nostri sospiri in fine si scioglie, dopo un ultimo grido.
Rimaniamo abbracciati, lei sopra di me, io dentro di lei. I nostri corpi sudati scivolano uno sull’altro, uno nell’altro, e lentamente, tra lunghi baci salati, stanchi ci addormentiamo…
Non vedevo niente, non sentivo nulla, solo notte e silenzio ad avvolgermi.
Una carezza, il caldo tocco di una mano sul viso.
Aprii gli occhi e vidi lei, in lacrime.
Sporca di sangue tra cadaveri ignoti era venuta a cercarmi.
Cercai di chiamarla, ma nessuna parola.
Gridando, si accasciò sul mio corpo…
Affascinato la guardo in silenzio.
Un sussulto. Una lacrima riga la sua guancia.
Apre gli occhi spaventata e cercandomi con occhi lucidi sussurra:
“Perché non sei tornato da me dopo la battaglia?”
Ho smarrito la via tra urla di morte e nel vento il mio corpo si è perso quel giorno.
Lei lo baciò piangendo e si amarono ancora, tra sogno e realtà, sospesi sul filo del tempo…
di Alessandro Capurso