Disìo

Maggio 27, 2006 in Libri da Stefano Mola

Titolo: Disìo
Autore: Silvana Grasso
Casa editrice: Rizzoli
Prezzo: € 17,00
Pagine: 250

DisìoAllontanarci dalla comodità delle parole usurate. Spesso siamo pigri, scegliamo la soluzione facile, dimentichiamo che il dizionario della lingua italiana ha spessore più importante di un opuscolo da centro commerciale che enumera le offerte usando non più di dieci aggettivi in tutto. Sembra banale e quasi scontato ma uno dei compiti della scrittura è anche (proprio) questo: l’uso del linguaggio. Le parole a volte sono animali dormienti, ci si attaccano addosso come parassiti. A volte è necessario metterle alla frusta, rivoltarle, farle cozzare come pietre focaie alla ricerca di una scintilla, sbalestrarle, mandarle in trasferta, metterle a nudo. Nella vita, nulla di più nocivo che abbandonarsi alla culla mortifera dell’abitudine, perché l’essenza stessa della vita è la trasformazione, il cambiamento. A volte, nella penombra sonnolenta della routine, non lo percepiamo: ma la mutazione magari impercettibile, sotterranea, scava il suo percorso come un tarlo e alla fine l’edificio crolla e noi restiamo nudi.

Queste riflessioni sono nate dall’incontro-scontro con le prime pagine di questo romanzo: Disìo di Silvana Grasso. Eccone un assaggio, l’incipit: Non è lacrima di cielo, né conca dove la sorgiva ‘nguma, tra vecchia alleanza di muschi, il suo inviolato imene d’acqua. È currulìo di gocce, nell’arso pistillo della tua vena, madre, un sordo miserere per una burrasca di polsi già consunta. Qui la lingua, come già da altri fatto, viene vivificata per ibridazione con il dialetto, che è quello della Sicilia, e l’occhio non può correre immediatamente avanti, appigliarsi al ritmo sonnolento e rassicurante di una trama immediatamente squadernata. Sono scelte stilistiche che possono allontanare, talvolta. Eppure, credo che sia da salutare come benvenuto il tentativo di mettere in dubbio la velocità, il flusso dove tutto deve scivolare, l’arredamento dove sappiamo perfettamente muoverci, ritrovare per esempio immediatamente lo spazzolino da denti. Questo valga come impressione e istruzione generale: per muoversi nel mondo abbiamo bisogno di tenerci svegli, di scontarci con la con il non scontato.

Ma al di là di tutte queste (mie) divagazioni, che cosa ci racconta Silvana Grasso? Il libro si apre con Memi, psichiatra, al capezzale dell’amata-odiata madre morta, in una calda notte siciliana. Memi torna dopo vent’anni di volontario esilio a Milano. Un allontanamento che non ha saputo (potuto) suturare la ferita della nevrosi, l’ombra enorme di un’infanzia segnata da uno stupro. Questo ritorno chiamato dal lutto si trasforma in un punto di svolta: Memi partecipa a un concorso per un posto in un ospedale di una grade città siciliana mai nominata esplicitamente (un accenno all’omertà? il battesimo assente come marchio di universalità?).

Qui il romanzo vira, immergendosi nel bitume vischioso, oscuro, viscerale delle best practises di mafia e politica e concorsi pilotati, in cui si inserisce il caso a scompaginare i disegni dei potenti. Il registro narrativo cambia, si addolcisce nella vicinanza con la cronaca, ma disegna comunque una storia che occhieggia all’epica, ai miti. E qui come sempre, il compito di unire i puntini della trama è da lasciare al lettore. Silvana Grasso quindi accosta il suo scavare nel rovello esistenziale il tema civile, trasmutandolo in una dimensione simbolica. E poiché i libri sono (anche) oggetti, una citazione per la copertina: questo bellissimo volto intenso di donna sotto una pettinatura quasi maschile, che scruta in una domanda muta dove risiede l’ombra di un dolore, di un calice infranto incrinato. Un bellissimo progetto grafico.

Infine, una curiosità: il blog dell’autrice.

di Stefano Mola