Carlo Grande per Traspi.net

Luglio 17, 2001 in Libri da Gustare da Stefano Mola

A Carlo Grande, 43 anni, giornalista della redazione culturale de «La Stampa» e direttore responsabile del mensile «Italia Nostra», Traspi.net ha rivolto alcune domande sul suo libro, «Cattivi elementi» (di cui beninteso potete trovare la recensione sul sito!)

In questo libro, personaggi minori o solo accennati in un racconto diventano protagonisti di un racconto che segue. Mi sembra che questo risponda a una logica unitaria, consequenziale (penso a quando Marco riflette sulla unitarietà organica della natura). Questi racconti sono nati da un’ispirazione unica, o l’idea di costruire un filo conduttore attraverso i personaggi è venuta strada facendo?

I «cattivi elementi» li ho incontrati semplicemente facendo il mio lavoro: sono persone reali, che ho conosciuto scrivendo articoli di ambiente. E tutti erano arrabbiati, avevano una forte passione civile. Ho voluto dar loro voce, perché raramente ce l’hanno. Anche le «truppe» anti-G8, ovviamente, si esprimono molto attraverso slogan, per attrarre i mass media, o in termini politici. A me interessava esprimere anche emozioni, sentimenti, quelli della gente comune. Poi, mi è venuto naturale, parlandone con Oreste del Buono, collegare i protagonisti tra di loro. In fondo ho solo fatto emergere tanti legami che già esistono, nella realtà.

Al tempo stesso, lo sguardo sul mondo proprio del libro si costruisce per frammenti a volte quasi espressionisti, per punti di vista. Raccontare per schegge è oggi l’unico modo possibile? C’è ancora spazio per grandi narrazioni?

Spero proprio di sì, anche se è sempre più difficile. Di belle storie ce ne sono sempre meno, i mass media banalizzano tutto. Ma quando si incontrano, come diceva Fitzgerald, si raccontano da sole. Mi auguro sia il caso della vicenda storica di cui sto scrivendo: è un romanzo, mi piacerebbe proprio fosse una «grande narrazione», piena di sentimenti. E’ l’unica cosa che salva la nostra umanità, alla fine.

La realtà della cronaca è per il libro uno sfondo forte: misurarsi con questa dimensione quali problemi e quali opportunità offre a un narratore?

Offre molte possibilità, perché la realtà, l’impegno sociale e i valori di chi crede in qualcosa meritano di essere raccontati molto più che le elucubrazioni e i sospiri interiori fini a se stessi che vanno tanto di moda. Ma bisogna dare a queste cose un respiro, un valore simbolico, farle risuonare letterariamente. E questo è difficilissimo, il confine tra il sublime e il ridicolo è molto esile. In più c’è il rischio di essere pedanti. Io ci ho provato, è un primo passo, un modo per imparare anche questo. Si può sempre migliorare.

Uno dei personaggi più positivi del libro è forse Enrico, per il quale il ritorno alla natura più che una scelta politica è una adesione umana, una necessità interiore di contatto con essa. Quanto velleitarismo è presente nel mondo ambientalista?

Ce n’è come in qualsiasi altro ambiente: le persone, tutti noi, veniamo costantemente «piallati» dal consumismo, anche ideologico, che ci confonde non poco le idee. Parliamo di sesso, di natura, di sentimenti, e concretamente molte persone si «vivono» pochissimo, con pienezza e entusiasmo. Enrico, anziché parlarne soltanto, cerca di agire. Come gli altri protagonisti dei racconti, del resto.

Un serio discorso sistemico ed ecologista mi sembra possa essere l’unico vero orizzonte politico dopo la “fine di tutte le ideologie”. Venendo di nuovo alla cronaca, la violenza sempre più presente nelle manifestazioni anti globalizzazione non rischia di azzerare il messaggio? I “condomini di via Vignazzola” percepiranno esclusivamente le vetrine sfasciate?

Concordo pienamente sull’orizzonte politico, ma la sinistra non se n’è ancora accorta come dovrebbe. Molti pensano che l’ecologia sia parlare solo di petunie e cartacce per terra. O forse fa comodo pensarla così. Invece l’ambiente, trattato con coerenza e serietà, è la nostra salute, fisica è mentale. E’ vera sfida, la vera «rivoluzione» di oggi. Questo non significa che si debba combattere con la violenza fisica, che mi vede assolutamente contrario. Ma farsi ascoltare, alzare la voce sì, perché tropi interessi tendono ad oscurare i messaggi anticonformisti. Spero che i “condomini di via Vignazzola” capiscano che le frange violente non sono l’insieme di chi protesta e non si fermino solo alle vetrine sfasciate, che comunque mi auguro non ci siano. Non serve a niente, sono un bersaglio stupido e sbagliato. E’ molto più eroico informarsi, mandare fax, essere presenti fisicamente nella quotidianità impegnata. Temo però che la gente comune sia molto confusa, e spesso non sappia nemmeno chi fa il suo interesse e chi, sorridendo e mentendo spudoratamente, la inganna e fa i propri. Ma questo è un problema molto più ampio di un semplice libro, sul quale non mi faccio illusioni. Come mi ha scritto Ceronetti a proposito dei «Cattivi elementi», «scrivere libri non serve a niente. L’unica speranza, alla fine, è che Dio riconosca i suoi». Io però spero che smuova qualcuno, ma alla fine è anche vero che l’ho scritto per me stesso, perché ci credevo e ci credo. E’ già molto: se combatti per le cose in cui credi, non sei mai veramente sconfitto.

di Stefano Mola