Aborigena
Ottobre 25, 2001 in Arte da Claris
Fino al 26 agosto possiamo sognare l’Australia avendo un preciso riferimento attorno a noi. A Palazzo Bricherasio, infatti, è esposta una significativa raccolta delle opere d’arte contemporanea degli Aborigeni australiani, appartenente alla collezione di Gabrielle Pizzi. Curata da Achille Sonito Oliva, la mostra illustra la storia del movimento Australian Aborigina Contemporary Desert Art, nato nel 1971 nella piccola e isolata comunità aborigena di Papunya, nell’Australia Centrale, ed estesosi progressivamente a molte altre comunità del Deserto quali Balgo, Haast’s Bluff, Utopia.
Se già questi nomi destano nell’immaginario collettivo favolose visioni cariche di esotismo, ammirare le opere rende un po’ più sognatori, allegri e sereni, ammesso di non essere turbati dal troppo colore, dalla vivacità, dalla convulsione di linee e forme.
La mostra raccoglie una novantina di opere, tutte di grandi dimensioni, dei principali artisti delle comunità del deserto. Nella scelta è stata posta un’attenzione particolare sia alla ricerca dei nessi e delle diversità tra gli artisti, sia alle differenze stilistiche esistenti tra le varie comunità. E’ stato così creato un percorso che si snoda tra credenze arcaiche e nuove interpretazioni, e che offre lo spaccato di un movimento di arte contemporanea che ha mantenuto saldi legami con la propria cultura ancestrale, riuscendo al contempo a consolidarli e attualizzarli attraverso espressioni artistiche innovative e concettuali.
L’arte aborigena australiana, infatti, è un’arte millenaria, che affonda le sue radici in un’antica tradizione e in un immaginario fondamentalmente religioso. Per gli aborigeni, un uomo non potrà mai possedere una terra, perché, al contrario, è lui ad appartenerle. La politica d’assimilazione perseguita dal governo australiano negli anni sessanta promosse l’esodo in massa delle tribù nomadi dell’Australia Centrale dalle loro terre d’origine e dai luoghi sacri ad esse connesse, portandoli a stabilirsi in riserve gestite dalle autorità governative. Le credenze e pratiche mitologiche e l’uso degli idiomi aborigeni furono attivamente scoraggiati, gettando le basi per un forte degrado culturale.
Fu nel 1971 che Geoffrey Bardon, un giovane maestro che insegnava a Papunya, ideò un modo per ricongiungere le tribù aborigene alla propria cultura. Ispirato dai grandi e complessi disegni eseguiti per terra (parte integrante delle cerimonie tribali aborigene) esortò numerosi allievi a dipingere un murale basato sulla mitologia della Creazione (Dreaming) sulla parete della scuola della comunità. In seguito a questa iniziativa un gruppo di anziani cominciò a dipingere dapprima sui muri e poi sulle tele i vari eventi mitologici di cui erano custodi. Nacque così questa arte contemporanea e al contempo sacra e rituale, con forti legami alla tradizione.
In seguito si aggiunsero numerosi altri insediamenti aborigeni, fra cui Utopia, e negli anni ’80 i Musei di Stato australiani iniziarono a perseguire importanti politiche di acquisizione, riuscendo così a costruire collezioni notevoli. Negli anni ’90 il movimento conquistò una fama internazionale, grazie a grandi mostre che si susseguirono in Asia, negli Stati Uniti ed in Europa e alla partecipazione di alcuni artisti alle Biennali di Venezia, San Paolo e Sidney.
Ma che cos’è il Dreaming? E’ il tempo del sogno; un concetto con mille sfumature. La terra esisteva come massa informe, poi, in un tempo remoto, antenati mitici fuoriuscirono dalle sue viscere, assunsero forma umana o animale ed intrapresero un viaggio alla scoperta della terra, sulla quale lasciarono segni tangibili del loro passaggio, dando forma al mondo e vita all’uomo e alle altre creature. Quando finirono di sognare, colti da una immensa stanchezza si riaddormentarono sotto la superficie della terra.
Il territorio è, quindi, memoria concreta dell’antico viaggio ed ogni momento di aggregazione riporta alla luce il Dreaming come principio generativo. Le danze, i canti e infine i dipinti di ieri e di oggi legati al Dreaming altro non sono che la riproduzione di ciò che fu creato dagli antenati.
Il cerchio e la retta sono simboli fondamentali nei dipinti aborigeni. Il primo rappresenta ad esempio una pozza d’acqua, un sito sacro, mentre la retta è un sentiero, un corso d’acqua. Simboli legati alla terra, di primaria importanza per questo popolo che, con essa, sente un legame indissolubile. Ogni murale è una storia di vita vissuta o una leggenda tramandata da padre in figlio, alcune accessibili perché l’artista ne ha spiegato il significato, altre volutamente enigmatiche, perché il tempo della rivelazione non è ancora giunto.
I dipinti raccontano, infatti, le storie mitiche e i viaggi creativi sul territorio, ma anche danno voce alle rivendicazioni sociali. ‘Questa è la nostra terra! L’hanno portata via senza riflettere su quello che stavano facendo. Ce l’hanno portata via come se noi non fossimo nulla. Questa è la ragione per cui noi ora vogliamo mostrare al mondo la nostra cultura del Dreaming, in modo che essi possano comprendere il nostro modo di vivere.’ (dal discorso tenuto dall’artista aborigeno Nelson Tjakamarra in occasione dell’inaugurazione del murale prodotto per l’Opera House di Sidney nel 1988).
Da segnalare l’orario estivo della mostra, dal pomeriggio a tarda sera, e soprattutto la coreografia metasensoriale: suoni e suggestioni aborigene si combinano alle grandi tele dipinte in modo da completare ed arricchire l’esposizione. Papi Moreno, suonatore di didjeridu, si esibisce tra l’altro ogni mercoledì alle 21,30 presentando la tecnica e le origini dello strumento.
Aborigena
Periodo: 29 giugno – 26 agosto 2001
Orario: da martedì a domenica dalle ore 15.00 alle 23.00; lunedì chiuso
Luogo: Palazzo Bricherasio, via Lagrange 20 – Torino
Ingresso: L. 12.000, ridotto L. 8.000, gruppi e convenzioni L. 10.000, scuole L. 6.000.
Informazioni: tel. +39.011.517.1660
di Claris