Il pianto del corpo | Sudate Carte Racconti I edizione

Gennaio 29, 2003 in Sudate Carte da Redazione

Valeria correva.
Valeria correva, l’umidità nell’aria l’avvolgeva e l’ingoiava richiudendosi dietro di lei. Era una di quelle mattine stanche e deboli di mezzo autunno, quando il sole estivo è ormai un triste ricordo e tutto è reso grigio ed informe dalla nebbia, quando c’è quella pioggerellina sottile ed eterea, impalpabile. Valeria era partita presto, quella mattina di domenica, per il suo giro di corsa abituale –Valeria non lo chiamava jogging, era troppo americano, troppo snob per i suoi gusti-, le piaceva correre mentre il mondo era ancora addormentato, tutto era più tranquillo, l’aria sembrava più pulita e non c’erano troppe auto in giro. I suoi piedi, calzati in un paio di scarpe da ginnastica bianche e azzurre, si muovevano veloci accarezzando il terreno, mentre i capelli biondi –di quel biondo naturale che le piaceva ostentare- erano legati in una coda di cavallo e ondeggiavano come un serpente ipnotizzato da un fachiro; Robbie Williams, intanto, dal lettore digitale agganciato al bordo dei pantaloni della tuta, le ricordava attraverso gli auricolari che aveva troppa vita che gli scorreva nelle vene che andava sprecata, ma Valeria, in fondo in fondo, neanche lo ascoltava. Quella mattina, proprio quella mattina, Valeria non si godeva la musica, l’aria o l’umidità che sfiorava il suo viso -che incominciava ad arrossarsi per lo sforzo-, non si godeva la calma del centro città e non faceva il consueto gioco di saltellare da una piastrella all’altra del marciapiede senza posare il piede sui giunti, né provava quel sottile senso d’inquietudine, di sottile paura non detta, che può avere una donna sola in una città così grande: quel mattino correva per non pensare, anche se evidentemente il risultato era diametralmente opposto.
La notte era stata agitata, nervosa, si era svegliata innumerevoli volte, come innumerevoli volte era rimasta sospesa in quel limbo infernale in cui fissava il soffitto con occhi stanchi e segnati, mentre la percezione del tempo si distorceva apparendo infinitamente lungo eppure così infinitamente breve. Il suo cervello non aveva smesso un attimo di lavorare, di pensare, di rimuginare, mentre il respiro regolare di suo marito al suo fianco l’innervosiva ancora di più, così, di primo mattino e mentre lui dormiva ancora, si era alzata silenziosa come un’ombra e si era infilata la sua tuta preferita, quella grigia, che era di una taglia o due più grande della sua e che dentro aveva ancora quella lanugine morbida e carezzevole che le tute nuove -anche quelle più economiche- hanno, e che la lavatrice strappa così impunemente ad ogni lavaggio, poi era passata dalla camera della piccola Stefania, ne aveva controllato il respiro lieve ed era rimasta un attimo a contemplare quel viso disteso e rotondo schiacciato contro il cuscino, aveva discosto un ciuffo ribelle che le scendeva sul nasino e le aveva rimboccato le coperte, posandogli una carezza sulla testolina fitta di ricci, ed infine era uscita.
Valeria ora correva a ritmo sostenuto, come si era abituata a fare, e si dirigeva verso il parco inconsciamente, seguendo percorsi così consueti che sapeva sempre esattamente dove rallentare e dove si formavano pozzanghere, le zone da evitare e quelle più sicure, così come i marciapiedi dove era meglio guardare dove mettere i piedi e quelli dove poteva essere relativamente tranquilla: i suoi passi erano regolati e scanditi da un processo figlio di innumerevoli esperienze passate, e tutto ciò la lasciava libera di pensare. Nella testa le scorrevano davanti frammenti di vita perduta, scelte difficili, cose non dette, ed una serie di altri satelliti, cristalli di amarezza che gravitavano intorno all’oggetto profondo del suo pensiero: il suo matrimonio. Valeria neanche sapeva o non ricordava, come spesso accade a quei pensieri che arrivano in luoghi molto lontani da dove sono partiti, il perché si fosse soffermata a pensare tutte queste cose, però le sembrava di vivere in una specie di recita dove qualcuno si era divertito a cambiarle le battute a sua insaputa, ed era rimasta sul palco senza più niente da dire di fronte a centinaia di persone. Tutto ciò che le era familiare ora le appariva maledettamente estraneo.
Suo marito Luca… si ricordava di quando lo aveva visto la prima volta, all’università, e di come era rimasta colpita da quegli occhi così strani, profondi e dolci allo stesso tempo, che sembravano sempre che ti penetrassero nell’anima quando si posavano su di te, occhi che ora erano spenti, distanti, spesso fuggevoli e distratti; si ricordava dei momenti felici di quando erano fidanzati, di quando sembrava loro di avere il mondo in tasca, i problemi erano grandi solo perché loro erano piccoli, e facevano l’amore nella mansarda striminzita che i genitori di lui avevano preso in affitto perché non fosse costretto a viaggiare, e dove il caos regnava sovrano ed i libri e i fogli d’appunti erano sparsi persino in bagno. Poi gli anni dell’università in un modo o nell’altro erano finiti, ed era arrivato il primo impiego per entrambi e poi il matrimonio, un matrimonio di quelli tradizionali, ma che era speciale perché era il suo, e di lì a poco era nata Stefania, quel raggio di sole che illuminava tutti al suo passaggio. Forse tutto era stato troppo veloce, forse si erano consumati in una fiamma ardente e luminosa che aveva finito in fretta il suo combustibile, o forse semplicemente non aveva mai pensato veramente a ciò che faceva, sospinta dal vento in avanti, con così tante cose a cui pensare e così poco tempo da dedicarci: questo Valeria non riusciva a spiegarselo, però l’unica cosa di cui era certa è che non avrebbe mai voluto trovarsi nella situazione in cui si trovava ora, e anche se in qualche modo se lo aspettava, non credeva potesse capitare proprio a lei, proprio a loro.
Suo marito Luca… il circolo vizioso dei suoi pensieri tornava sempre a lui, tornava sempre a quel suo atteggiamento freddo e distaccato che da un po’ di mesi le riservava, a quel suo essere svogliato, lui che era sempre un vulcano di attività, quei baci che erano ormai alla stregua di pure formalità, ed anche una certa meccanicità nel sesso, e tante piccole cose che solo una moglie può notare…
…forse ha un’altra…
il pensiero la colpì come una freccia in pieno petto, e per un attimo fu presa dallo sconforto e dalla disperazione, i suoi pensieri turbinavano impazziti vomitando immagini distorte e negative, immagini in cui c’erano rabbia e solitudine, divorzio, affidamento… e c’era Stefania, la piccola Stefania! A quel punto un campanello d’allarme suonò nel suo corpo, il respiro le veniva a mancare e i polmoni le bruciavano, mentre il cuore batteva all’impazzata: in quel momento si accorse che si trovava già nel parco, e che sta correndo veloce, troppo veloce perché potesse sostenere un tale ritmo, così piano piano rallentò e si appoggiò ad un albero per riprendere fiato.
Con la mano destra appoggiata all’albero Valeria guardava l’erba ai suoi piedi, mentre si sentiva ancora il cuore pulsare in gola e cercava di riportare la sua respirazione ad un ritmo normale; intanto, una gocciolina di sudore in alto sulla sua tempia, prese a scivolare sulla pelle liscia, virò sopra l’arcata sopraccigliare e la percorse per due terzi della sua lunghezza, a quel punto si fermò, tremolò un attimo e si librò nell’aria. Valeria la vide cadere quasi al rallentatore, la vide scendere dritta verso il terreno e rompersi su una delle radici dell’albero, formando per un istante una piccola coroncina per poi ricadere su se stessa e colare verso il terreno: in quel momento Valeria non pensava, forse per una sorta di meccanismo di autodifesa interno, e si limitava a sentire il proprio respiro da dentro le orecchie e a percepire il battito del cuore che le scuoteva la gabbia toracica – tutta la sua attenzione era stata assorbita dalla goccia. Un istante più tardi, che Valeria percepì come se fosse stato lungo un’ora, un’altra goccia di sudore partì dalla sua tempia, fece lo stesso percorso -o
ramai collaudato- della goccia che la precedeva, tremolò sempre più velocemente, come se avesse paura di lasciarsi andare, e anch’essa si librò nell’aria, ma qualcosa accadde. La goccia non arrivò mai a terra, ma si fermò sulla mano di Valeria che, per un motivo che non si spiegava neppure lei, si era mossa per raccogliere quella piccola goccia, e che ora si stava avvicinando al suo viso: Valeria la fissò per un attimo e ad un tratto le balenò in mente, come una scritta al neon accesa in una stanza buia, una frase “le lacrime rappresentano i dolori o le gioie dell’anima, il sudore è la stessa cosa per il corpo”, una frase che aveva sentito anni prima, ma non ricordava chi l’avesse detta o quando. Ad un tratto successe qualcos’altro: la mano si alzò, la sua bocca si aprì e con la lingua raccolse la goccia, assaporandone in bocca il gusto salato; era un gesto che spesso faceva quando era piccola, lo faceva con le lacrime, dopo che aveva pianto, e una vocina nella sua testa le stava gridando che ormai non era più una bambina, e che così facendo poteva solo sembrare ridicola a sé e agli altri, ma lei non la ascoltò. Valeria in quel momento sentì crescere dentro di sé qualcosa di nuovo, una specie di vento benefico che spazzava via lo smog che le si era formato dentro: fu invasa da una specie di nuova consapevolezza, e il tutto nasceva da quel sapore salato, da quella goccia e da quella frase, quella frase che ora ricordava benissimo da dove provenisse, era una frase che le aveva detto Luca una sera, la sera in cui era stata concepita Stefania (oh sì, ne era sicura, certe cose una donna le sa!), loro erano sdraiati nel letto, abbracciati e ancora madidi di sudore, e lui le stava spiegando che, per come la pensava lui, il corpo sudava perché era una manifestazione di gioia o di dolore fisico, così come le lacrime lo erano dell’anima; a quel punto la sua mente fece un balzo e le sovvenne un altro ricordo, il ricordo di quando aveva sentito l’ultima volta quel sapore salato, quando in sala parto era nata Stefania, e al dolore era seguita la felicità, ed aveva pianto ed aveva riso.
Valeria ora sapeva cosa doveva fare: si aggrappò a quei due ricordi, quei due ricordi felici, e decise che finché ci sarebbero stati quelli forse non tutto era perduto, e che non era scappando o evitandoli che i problemi si sarebbero risolti, così si raddrizzò, sorrise a se stessa e fece un lungo respiro, e poi riprese a correre.
Verso casa.

di Maurizio Targa