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Aprile 15, 2002 in Libri da Stefano Mola
Romana Petri, “La donna delle Azzorre”, Piemme, pag. 155, Euro 12,91
.jpg) Una donna italiana passa da sola l’estate a ( Pico  (isola delle Azzorre). È un’insegnante di francese, cerca forse la pace di un tempo sospeso, si è portata dietro molti libri da leggere. Pico è un’isola di origine vulcanica, spazzata dai venti e frustata dall’oceano, una terra che alterna coltivazioni rigogliose a colate laviche ricoperte di sterpaglie (i misterios). Una terra povera, popolata di gente semplice, spesso costretta nel passato ad emigrare per vivere.
Una donna italiana passa da sola l’estate a ( Pico  (isola delle Azzorre). È un’insegnante di francese, cerca forse la pace di un tempo sospeso, si è portata dietro molti libri da leggere. Pico è un’isola di origine vulcanica, spazzata dai venti e frustata dall’oceano, una terra che alterna coltivazioni rigogliose a colate laviche ricoperte di sterpaglie (i misterios). Una terra povera, popolata di gente semplice, spesso costretta nel passato ad emigrare per vivere.
Sarà la suggestione geologica delle colate laviche, ma i libri più belli sono quelli che si possono leggere a strati. Il primo strato di questo libro è fatto dalle storie della gente di Pico. Tranne il capitolo iniziale e i due capitoli finali, tutti gli altri prendono il nome dalle persone che la donna via via incontra. Sono tutte storie di emigrazione, quindi di precarietà, di incerto e forse impossibile equilibrio tra l’identità originaria e quella del paese ospitante. Ma sono sempre storie d’amore: se coniugale è al tempo stesso intenso e semplice, necessità primaria come gli elementi naturali senza i quali la vita non è possibile, pelle. Se l’amore non è consumato diventa rimpianto che scorre sordo sotto tutta la vita.
Tutte le storie sono viste dalla prospettiva conclusa e lontana della vecchiaia. Spesso quindi la morte è presente, ma in questa terra sospesa (tra il vento e il mare, terra precaria proprio perché vulcanica) si confonde alla vita: “la morte si è fatta lunatica e pellegrina, qualche volta se ne va a prendere il posto della vita” [pag. 146]. Si confonde così tanto che frequenti sono le apparizioni, non diciamo fantasmi o visioni, come se la condizione di precarietà, di distacco, l’intensità dell’amore al di là della morte, la forza del rimpianto per quello che non è stato fossero in grado di dare materia a chi materia non è più. E la forza di tutto questo è tale che spesso la donna vive le apparizioni in prima persona. Dicendo questo non vorrei dare l’impressione che questo libro sia fatto di storie di fantasmi. Le apparizioni completano e prolungano gli accadimenti reali, i pensieri e le emozioni dei personaggi. Del resto, lo sguardo che noi appoggiamo sulle le cose coincide forse con le cose stesse? La prima apparizione è quindi l’illusione che costruiamo per noi stessi. Come dice uno dei personaggi, Isabel Lima, “Non si è mai realisti per davvero, ce lo insegna l’arte che è sempre irreale per troppo ingombro della vita” [pag. 102]. O anche, verso la fine del libro, Maria Moniz dice alla donna “Non si spaventi […] esiste solo quello che si vede, ci siamo e non ci siamo, mica conta molto” [pag. 133].
Del resto, l’emigrazione è prolungamento, sospensione della coscienza tra due luoghi (così come la terra vulcanica è precariamente sospesa tra vitalità e distruzione): questo si rispecchia nella incerta collocazione di chi non c’è più, come se chi si è trovato da vivo tra due luoghi o non è riuscito a vivere il suo amore faticasse a trovare un posto anche da morto. Un altro personaggio, Malvina Sebastiao, tra i più belli del libro, dice “a lungo andare il male arriva fino in fondo, dentro l’anima, la nutre, la fa pesante, e l’anima, al momento suo di andarsene, resta spaesata, non sa prendere la strada leggera dell’altitudine che le spetta, e resta qui, sulla terra, ci resta pure se sa che non è più il suo posto” [pag. 77].
La donna è sempre più coinvolta da queste storie e da questa gente, sospesa tra l’attrazione per una semplicità probabilmente perduta (“Però mi fa una gran malinconia […] e me l’immagino questa gente che se va con il cuore tanto pieno di speranza che già nel viaggio si vuota del passato” [pag. 147]) e la realtà irrimediabile del presente, fatta di persone che sono diventate qualcos’altro, di figli di immigrati che hanno perso del tutto l’impronta di Pico, vestono a braghe larghe come i pari età americani.
Ecco quindi come il resoconto di una vacanza si allarga a ventaglio, diventa anch’esso qualcos’altro, una riflessione sull’identità, sulla precarietà dell’esistenza, sulla persistenza delle passioni, sull’illusione, sulla felicità. Lo sguardo della donna si rispecchia e si riflette nel paesaggio e nei personaggi: tutto è vissuto con intensità, tra attese deluse e scoperte. Sono molte le frasi che verrebbe voglia di trascrivere, annidate tra una descrizione di un personaggio e quella di un paesaggio. Riflessioni tracciate in una lingua asciutta, scarna ma assolutamente incisiva, precisissima, capace in pochi tratti di definire una sensazione, uno stato d’animo o dell’anima, e allo stesso tempo di restituirci un paesaggio, un’isola.
di Stefano Mola



