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Maggio 26, 2002 in Libri da Stefano Mola

Orhan Pamuk, “Il mio nome è Rosso”, Einaudi, pag. 445 Euro 19,63

30916(1)Lo dichiaro fin da subito: di fronte a questo libro sono ammirato. Adesso provo a spiegare perché. Si possono fare tante teorie sulla letteratura, tutte giuste, tutte interessanti, tutte capaci di aprirci una finestra per guardare il panorama di un libro da un’angolatura nuova. Non voglio qui né citarle, né sminuirle. Ma se per spiegare cosa fa grande un libro avessimo solo la strisciolina di carta che accompagna i baci perugina, oppure i 126 caratteri di un SMS, direi soltanto: “Una bella storia, raccontata in modo originale” (46 caratteri, spazi inclusi). Sembra facile, e sembra anche poco. Però, non è che tutti i libri siano così. Ci sono a volte delle belle parole, ma uno poi si chiede dov’è la storia, o viceversa.

Ne “Il mio nome è Rosso”, siamo a Istanbul, nel 1591. Il sultano ha commissionato un libro con miniature. I disegni devono essere fatti non secondo la tradizione dei miniaturisti turchi, ma secondo lo stile occidentale, conosciuto grazie ai contatti con Venezia. Il libro dovrà essere realizzato in segreto: rappresentare con realismo, è considerato eresia. Il miniaturista non deve disegnare il mondo così come è, ma platonicamente, così come lo vede l’occhio di Allah. Niente prospettiva, nessuna concessione allo stile personale, nessun segno di riconoscimento, nessuna firma sui disegni, e massima imitazione dei grandi maestri del passato.

Maestro Effendi, ormai vecchio, che ha viaggiato molto e che ammira lo stile occidentale, è stato incaricato dal sultano di seguire la realizzazione del libro. Uno dei quattro miniaturisti che lavorano al libro viene ucciso proprio quando Nero, innamorato fin dall’età di 12 anni di Þeküre, figlia di maestro Effendi, torna in città. Nero è stato per anni in paesi lontani come funzionario dell’impero ottomano. Þeküre, che aveva rifiutato Nero, si è nel frattempo sposata e ha avuto due figli, ma il marito ormai da quattro anni è disperso in guerra. Nero è ancora innamorato di Þeküre, e riceve dallo zio il compito di trovare l’assassino del miniaturista.

Un trama gialla intrecciata a una storia d’amore. Un mondo da scoprire, quello della miniatura orientale, con la sua storia e le sue storie: gli artisti, la loro concezione dell’arte, i rapporti con il potere. La ricostruzione dell’atmosfera di una città ricchissima di cultura e di scambi con il mondo: i mercati, le osterie, il cadì, i dervisci, il porto, le moschee, il palazzo del sultano…

Poi, il modo di raccontare. Il primo capitolo si intitola “Io sono il morto”. Il romanzo inizia così: con il miniaturista ucciso che in prima persona ci parla dalla sua prospettiva di corpo ormai privo di vita che giace in fondo a un pozzo. (potete leggere l’attacco del romanzo nel sito del Premio Grinzane ). Anche tutti gli altri capitoli sono raccontati in prima persona, ogni volta da una voce diversa, e quindi da un punto di vista diverso. I personaggi principali ricorrono ovviamente con maggiore frequenza, ma può accadere che in capitolo la voce sia quella di una moneta, di un disegno di un cane, di un albero. O di un colore: appunto, il rosso. Ne viene fuori un effetto mosaico di grande ricchezza, che permette non solo di raccontare una storia, ma per l’appunto, una città e un’epoca. Una tecnica simile l’avevamo già vista in Amore, ecc di Julian Barnes, ma limitata a tre personaggi protagonisti di un menage à trois.

Qui Pamuk con grande maestria regge una trama dai molti fili, e riesce a rendere a far convivere l’affresco storico con una descrizione dei sentimenti molto attuale. Il personaggio di Sekure è veramente molto bello: esitazioni, incertezze, repentini cambi di umore, paure, passioni, astuzie, l’amore per i figli, il desiderio di sicurezza, sempre in bilico sulle sfumature. Insomma, credo proprio che queste povere righe non siano sufficienti a spiegare del tutto questo libro veramente affascinante. L’unica cosa da fare è leggerlo.

di Stefano Mola