Lo stomaco della Repubblica

Settembre 30, 2001 in Libri da Gustare da Stefano Mola

Filippo Ceccarelli, “Lo stomaco della Repubblica”, Longanesi, pp.375, Lire 30.000

24948Non che non abbia voglia di lavorare, però come iniziare meglio? Ecco quello che trovate a pagina 123: “Non si sottolinea mai abbastanza quanto di primordiale comporta il pasto in comune, la primaria divisione del cibo. Chi si siede a tavola non è mai inoffensivo; in teoria ha a disposizione delle armi: coltelli, forchette. La tessa esibizione dei denti, inevitabile in occasioni del genere, possiede una sua minacciosa rilevanza simbolica. E tuttavia, il fatto che i commensali non si attacchino l’un l’altro, e che anzi si spartiscano il cibo, indica la forma più elementare della politica.

Questa non è che una delle tante considerazioni che illuminano il rapporto (spesso neanche tanto simbolico) tra cibo e potere. Il potere di chi dà da mangiare: allora, i pacchi di pasta distribuiti da Lauro a Napoli negli anni 50. Il cibo del piano Marshall. I democristiani “forchettoni”, i festival dell’Unità e le tonnellate di bistecche e salsicce arrostite sulle griglie. I caffè particolarmente “amari” di Pisciotta e Sindona. Le cassate di Andreotti, i digiuni di Danilo Dolci e Marco Pannella. La paffutosità di Spadolini. Prodi-Mortadella e Veltroni-Nutella. Craxi che fa scarpetta nel piatto del vicino, simbolo di un potere arcaico e assoluto. La crostata di casa Letta… l’ipertrofia mediatica di Vissani ai tempi di D’Alema (e i risotti di quest’ultimo). La berlusconiana avversione all’aglio… (per non citare che alcuni dei personaggi e degli episodi).

Insomma, dalla fame vera (per tutti) del primo dopoguerra ai menù iperelaborati quasi (tristemente) contenuto principale nelle cronache degli incontri tra i potenti, Ceccarelli (giornalista de La Stampa) racconta la società italiana dal dopoguerra ai giorni nostri. Da un punto di vista forse laterale, ma non per questo meno fondamentale. Al di là dello stile incisivo, colorito senza scadere nel facile effetto, sottilmente ironico, colpisce l’impressionante mole di documentazione a supporto del racconto. Il libro è organizzato in agili capitoli, corredati ognuno da una ricca bibliografia (articoli di giornale, libri, siti internet): uno strumento a disposizione di chi vuole approfondire un periodo o un personaggio (a me ha colpito in particolare la vicenda di Danilo Dolci, di cui sapevo pochissimo, e di cui si può trovare ampia documentazione in rete).

Per concludere, un altro stimolo sull’argomento che viene da un articolo di Oddone Camerana (apparso su La Stampa di venerdì 21 Settembre): “Resta da chiedersi perché si mangia la carne. Risponde a questo interrogativo il libro di Craig B. Stanford Scimmie cacciatrici (Longanesi). Partendo dall’ipotesi che ci sia stato un tempo in cui la carne faceva bene al carattere, l’antropologo statunitense afferma che senza il consumo di questo alimento non vi sarebbe società. L’associazione colta dai primitivi tra il piacere della caccia e della cattura delle prede animali e quello della condivisione di questo alimento sarebbe stata decisiva nel convincerli del suo pregio, ben superiore a quello dei vegetali. Da quel momento infatti le facoltà dell’intelligenza e dell’apprendimento dell’uomo presero a svilupparsi. Non si sarebbe cominciato a mangiare carne perché forniti di denti, ma questi sarebbero cresciuti perché si aveva un bisogno (sociale) di carne. Allo stesso modo non avremmo cominciato a cacciare in quanto bipedi, ma lo saremmo diventati per cacciare. Tra il consumo rituale, regolato e condiviso della carne e la crescita del cervello si sarebbe stabilito un rapporto diretto, e la carne sarebbe stata una dieta della mente prima che del corpo. Quel di più che essa fornisce sarebbe venuto dalla percezione che essa era uno strumento indispensabile per affermarsi, per fondare una famiglia, per stabilire una gerarchia e per «far politica».”

Che ne pensate?

di Stefano Mola