L’interprete

Luglio 3, 2004 in Libri da Stefano Mola

Titolo: L’interprete
Autore: Diego Marani
Casa editrice: Bompiani
Prezzo: € 14.50
Pagine: 240

Diego MaraniFelix Bellamy, il protagonista di questo libro, è il direttore dell’ufficio interpreti di un importante organismo internazionale. Conduce una vita prudente e ritirata, senza molti contatti sociali, dove c’è quasi un odore di misantropia. Convive in una grande casa insieme a Irene. Anche la loro storia d’amore è quieta (ci eravamo conosciuto troppo tardi per sciogliere al calore di un affetto le nostre ormai indurite solitudini, pag. 11), fatta perlopiù di sottintesi (comunicavamo con i rumori, pag. 10), di piccole passioni condivise. È quindi tranquillo come chi si è messo al riparo dalla grandi correnti della vita, dopo aver accuratamente ripiegato le ali delle grandi illusioni. Bellamy, nonostante il suo ruolo, o forse proprio per questo, diffida per natura degli interpreti e delle lingue stesse, limitandosi a parlare francese e a mantenere un timore reverenziale per il tedesco, lingua paterna: Le lingue sono come lo spazzolino da denti: ognuno dovrebbe mettersi in bocca soltanto il proprio […] una lingua estranea, iniettata nella nostra mente porta il contagio di suoni sconosciuti, la visione di mondi a noi iconmprensibili, la vertigine di altre verità e il desiderio diabolico di possederne la conoscenza (pag. 16)

Un giorno riceve una segnalazione sugli strani comportamenti di un interprete. Durante le simultanee, spesso prorompe in una serie di suoni e versi che non hanno a che fare con alcuna delle lingue conosciute: sono piuttosto vicini a quelli emessi dal regno animale. A parte questo, il suo curriculum è immacolato, la sua competenza e conoscenza delle lingue fuori discussione. I rapporti su di lui si susseguono. L’interprete ossessiona Bellamy, richiedendogli continui appuntamenti in ufficio e fuori, tentando disperatamente di convincerlo a non firmare l’ordine di servizio che lo sospenderà dal lavoro. Sostiene allucinatamente di essere sulle tracce di una lingua perfetta, comune a tutti gli esseri viventi.

Bellamy non solo si convince a firmare l’ordine di servizio che congeda l’inteprete, ma quasi per contappasso scoprirà con orrore di essere vittima degli stessi sintomi. Si convince che forse l’unica persona che potrebbe aiutarlo è l’interprete stesso, il quale però è scomparso. Per Bellamy, inizia così un incubo che lo porterà, sulle tracce dell’interprete, prima nell’inquietante clinica del dottor Barnung e poi a vagabondare per l’Europa dell’est e del nord.

Terzo romanzo di Diego Marani, che ancora una volta coltiva le sue storie a partire dal sottobosco delle lingue. Dopo la dolente e sottilmente esistenzialista vicenda di Nuova grammatica finlandese (Premio Grinzane nel 2001), e il divertente tourbillon de L’ultimo dei Vostiachi (finalista al Campiello 2003), che atmosfere troviamo in questo libro? L’inizio, nella descrizione della vita solitaria e apparentemente al riparo di Bellamy, in cui a poco a poco si insinuano i suoni orribili che si sovrappongono alla sua lingua, richiama sfumature kafkiane. In Marani, anche nelle pagine più divertenti, è talora in agguato una dimensione malinconica ed esistenzialista, che in Nuova grammatica finlandese ha avuto esiti magistrali. Come se, paradossalmente, proprio la sua conoscenza delle lingue (Marani è interprete presso la comunità europea) gli abbia permesso di acquisire la consapevolezza che al di là di tutto la comunicazione profonda, la possibilità che due esseri umani riescano veramente a entrare in contatto, sia una condizione del tutto precaria, sostanzialmente illusoria e forse comunque destinata al fallimento.

Di qui anche, probabilmente, l’ossessione verso una lingua naturale, che riporti la comunicazione a un livello essenziale, al di là delle sovrastrutture della cultura umana, un insieme di suoni che ci riportino in contatto con la natura e gli animali, un tema che era già presente ne L’ultimo de Vostiachi.

Da segnalare l’episodio centrale del libro, che da solo vale secondo me la lettura del romanzo. Parlo della clinica del dottor Barnung. Qui, se il paragone non sembra troppo altisonante, abbiamo una specie di Montagna incantata (in sediscesimo certo, e virata in grottesco). Invece che le malattie polmonari, l’inquietante dottor Barnung cerca di curare i mali psichici con la terapia delle lingue. Ci sono sicuramente delle invenzioni molto divertenti, ma anche degli squarci di riflessione filosofica sulle lingue veramente interessanti e profonde, come del resto in tutta la prima parte del libro. La seconda parte del libro, con il lungo e picaresco vagabondaggio di Bellamy per mezza Europa, l’ho trovata meno convincente.

Marani conferma in questo libro di essere sicuramente uno degli scrittori più interessanti e originali in Italia oggi. Per la sua capacità di dar vita a una lingua originale che non è artificiosa o fine a se stessa, e non si riduce ad autocompiacimento. Per saper toccare temi profondi, anche dolorosamente esistenziali, senza cadere nella contemplazione del proprio io o nel rosario delle disgrazie. Per l’invenzione di storie originali, dotate di ritmo narrativo, di una componente ironica, grottesca, dove succedono cose, senza cadere nell’ipertrofia da invenzione, o nella ricerca dello stupore e dello strano, come invece troviamo in certa narrativa contemporanea che viene da oltre oceano.

di Stefano Mola