La stanza del figlio

Novembre 12, 2007 in Cinema da Redazione

la stanza del figlioPrima fase.

Giovanni, Paola, Irene e Andrea. Questi i nomi delle persone che ci accingiamo a spiare, in silenzio. Una famiglia, di quelle che vorremmo tutti avere. Giovanni è uno psicologo, alle prese con i problemi altrui (che a volte ascolta con un sorriso non di compatimento, bensì di partecipazione). Paola lavora in una casa editrice e sorride spesso, Irene e Andrea sono ragazzi semplici alle prese con le solite angoscie, serenità, vicissitudini che ci sono tanto familiari.

Spiare, in verità, non è il verbo adatto. Li adottiamo. Il nostro sguardo, osservandoli, si allarga sempre più. A tavola, in macchina (cantiamo, felici e imbarazzati, perchè erano anni che sognavamo questa sincronia), a lavoro, durante la partita di tennis.

Guardiamo con attenzione. Osserviamo la stanza del figlio, in cui Giovanni si tormenta per comprendere se davvero Andrea abbia potuto rubare quel maledetto fossile, a scuola. Ascoltiamo i discorsi della paziente, che riesce a consolarsi solo acquistando un vestito nuovo dopo ogni seduta. Osserviamo e quasi rispondiamo alle domande, convinti che anche loro ci vogliano già bene, come noi ne vogliamo a loro.

Domenica mattina. A tavola, si decide il da farsi. Decidono (decidiamo?) di rimanere insieme. Padre e figlio per una corsa spacca muscoli.

Il telefono squilla. Rettifica. Un paziente ha bisogno di Giovanni. Corsa rimandata. Il sofferente (Silvio Orlando) ha scoperto di avere un tumore. Deve concludere gli accertamenti, ma il suo pessimismo cosmico gli mostra l’agonia della prossima malattia.

Giovanni è seduto su una panchina, il mare sullo sfondo è quasi in burrasca. Pensieroso, riflette delle tragedie altrui, ne incamera i dispiaceri. Non immagina l’onda tremenda che si abbatterà sulla propria realtà.

Basta un attimo. La felicità si spezza. L’armonia viene cancellata. Stesso sguardo di morte che invaderà Irene, poco dopo. Infine, l’abbraccio collettivo. Le lacrime. Forse l’unico e ultimo momento di intesa familiare (ma si può ancora parlare di famiglia, una volta che uno di noi è scomparso, morto, volatilizzato?). Andrea, non c’è più.

Seconda fase.

Lo scontro con la realtà. Nessun vuoto patetismo, nessuna speculazione sul dolore. Solo l’appuntamento con la sofferenza. Dover pronunciare la data di nascita, scorrere le foto delle possibili bare da comprare. Poi poi arrivare all’estremo saluto, con la salma (non tuo figlio, ma solo un pezzo di carne!) e la chiusura definitiva di una vita, di Andrea. E’ dolore vivo. Un dolore che lo spettatore percepisce. Persino il suono, anzi, il rumore del coperchio che viene abbassato. La fiamma ossidrica che cancella i suoi occhi. Il trapano che trafora i nostri ricordi. Tutto accompagna l’irrimediabile. Saranno quei suoni a tormentarci. Ad annientarci. Saranno quei suoni a perseguitarci.

Terza fase.

La rielaborazione del lutto. Non c’è dolcezza che possa salvare. L’individuo ha una propria costruzione che funge da rifugio segreto, un proprio percorso per affrontare o eludere la veridicità.

Urla. Pianti. Finti divertimenti. Abbandono del lavoro. Allontanamento dei cari. Allontanamento da sè stessi. Meditazione, vuota. Più gentilezza. O più solitudine. Più. Meno. L’esito è sempre uguale a zero. Zero vita. Zero realtà. Zero lui. Zero noi.

Gli stanchi gesti compiuti ieri, oggi sono carichi di “altro”. Di patema, sofferenza, angoscia, tormento, inquietudine.

Poi l’inevitabile: “Cosa sarebbe successo, se….?”. Rimorsi. Ansie. Annullamento della realtà.

Giovanni non riesce più a curare il paziente soccorso quella fatale domenica, Paola si appiglia a una lettera di un piccolo amore di Andrea per cercare di riportarlo a sè.

Atti stanchi. Tornerà mai tutto come prima?

Li lasciamo in riva al mare, ognuno camminante verso una direzione diversa.

Qualcos’altro accadrà, ci anticipa Moretti, ma ora lasciamoli soli…

Opinione

A parer mio, è il miglior film del regista. Privo di politica, di effetto sociale (nonostante in molti abbiano ipotizzato che si tratti di una complessa metafora per trattare in realtà la morte del comunismo). Solo uno sguardo privato all’esistenza. Difficile, quasi impossibile, trattare la morte di un figlio senza cedere in vuoti patetismi. Ha fatto centro.

Le lacrime scendono, ma è una commozione più radicata. Spontanea. Non si tratta di trasporto filmico, se mi passate l’espressione. Sono solo gioia e dolore che si alternano. Siamo il terzo figlio che ride e gioca. Siamo il terzo figlio che, piangente, abbraccia la propria famiglia.

Significativa la scena iniziale, con la corsa di Moretti che ci riporta ai “Quattrocento colpi” di Truffaut e che gradualmente scema, per poi concludersi con l’esaminare altri passi gioiosi, danzanti e raggianti. L’incontro con i devoti di Krsna, che cantando il Mantra, tentano di coinvolgerlo. Li esplora, sorridendo. Aprendo la porta di casa, canticchia.

Che significa? Che Dio non esiste e che ci burla di noi? Che il nostro è canto è mera illusione? O è semplicemente un riferimento affettivo alla religione più dolce che esista, che guarda alla morte quasi con maturità? Un presagio di quanto accadrà?

Attori formidabili (con il testa Moretti, come sempre), ma la rivelazione non è nella musica, nella fotografia o nella sceneggiatura (tutte egualmente stimabili), ma nel modo nuovo con cui il regista utilizza il Cinema. Il riuscire a distaccarsi dai suoi normali clichè e, proprio per questo, raggiungere la perfezione.

Cinema spirituale.

di Alice Suella