Il mestiere del farmacista

Febbraio 10, 2003 in il Traspiratore da Redazione

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21 febbraio 1991: una data come un’altra, ma per me è importante, perché è la data della mia laurea. Mi ero svegliata che ero ancora “studente”, e me ne sono andata a nanna appesantita da un pomposo titolo di “dottore in farmacia”: contenta (perché credevo che gli esami fossero finiti…), soddisfatta (perché avevo preso un bel voto) e un po’ angosciata (perché ora iniziavano la routine e le scelte definitive). Naturalmente, mi sbagliavo su tutta la linea: primo perché, come é noto da secoli, “gli esami non finiscono mai”; secondo, perché un bel voto serve soprattutto per riempire una riga in più nel diploma che papà e mamma non vedono l’ora di incorniciare; terzo, perché il seguito della storia non prevedeva affatto scelte definitive. Nel giro di una dozzina d’anni, ho scoperto che anche un farmacista può cambiare, alternare, girovagare, viaggiare, rinnovarsi, a dispetto dello stereotipo generale che ci vede dietro un banco dal primo all’ultimo giorno della vita professionale. E’ un’opzione, naturalmente, ma non è la sola. E qui di seguito, provo a dimostrarlo, per tutti i traspiratorini eventualmente incuriositi, ma soprattutto per i colleghi traspi-farmacisti!

Per farlo, riprendo la storia che avevo iniziato qualche riga più in alto, e dal febbraio del ’91 salto al marzo del ’98: sono sempre un “dottore in farmacia”, che nel frattempo ha avuto l’occasione di fregiarsi successivamente dei titoli di “farmacista collaboratrice”, “clinical monitor”, “clinical research co-ordinator” e “clinical research scientist” (ahi, che dolore, quest’incorreggibile ed inutile anglofilia delle nostre aziende!); di girare una parte di mondo fra congressi e centri di sperimentazione clinica (fra parentesi: la sperimentazione clinica è quella dove si investigano l’efficacia e la tollerabilità dei nuovi farmaci); di imparare cose e materie nuove (un po’ di medicina respiratoria, un po’ di medicina cardiovascolare, un po’ di farmaco-economia, un po’ di statistica medica …). Insomma: siamo nel marzo del ’98, io sono una che “gira, fa cose e vede gente”, e che è pure un po’ stufa, vuoi perché i viaggi in aereo e le riunioni internazionali, ripetuti enne volte, diventano routine pure loro, vuoi perché certi farmacisti sono in fondo degli individualisti incorreggibili, e lavorare con l’etichetta di una padrone-azienda è una cosa che non ci andrà mai completamente a genio.

Nel marzo del ’98 stanno anche per cominciare i bombardamenti della NATO sulla Yugoslavia. L’Europa è in fermento, gli Stati Uniti sono in fermento, la Yugoslavia è in fermento, tutti sono in fermento, e le ONG (Organizzazione Non Governative) di vari Paesi si preparano a rafforzare la loro presenza in Yugoslavia, per fare fronte alla presenza dei profughi ed all’aumento di necessità e problemi nel campo sanitario, della scuola, delle infrastrutture. E io scopro che in questa triste congiuntura anche i farmacisti possono tornare utili, e parto per il Montenegro come responsabile di un programma di approvvigionamento di farmaci essenziali. Tutto cambia, nel giro di una settimana, ed il bello è che ci si abitua subito, alla nuova vita. Casa nuova, a Podgorica, una città che inizialmente mia mamma non riesce a trovare sul suo atlante, perché “prima” si chiamava Titograd. Auto nuova, una Golf di quinta mano per l’estate, ed un fiammante 4×4 per l’inverno, quando le strade sono ghiacciate. Sede di lavoro nuova, un magazzino di non-so-più-quanti metri quadri, zeppo di farmaci generici, dove lavoro con un farmacista francese, una farmacista montenegrina, un magazziniere bosniaco, un interprete montenegrino e un medico serbo. Interlocutori nuovi, vale a dire tutti i farmacisti del Montenegro, simpaticissimi e sempre determinati a farti accettare caffè-e-sigaretta-e-grappa ogni volta che arrivi per fare la tua consegna e le tue indagini sui bisogni futuri… e guai se non accetti la letale triade, fossero pure le nove del mattino!. Lingua nuova, osticissima, con un mare di suoni che noi proprio non sappiamo riprodurre né distinguere, e per giunta con doppia opzione alfabetica, latina e cirillica (dopo un anno, ero almeno in grado di chiedere la direzione, se come spesso capitava mi ero persa). E linguaggio nuovo, perché è qui che ho imparato, o iniziato a imparare, che cosa vuol dire “farmaci essenziali” e “prescrizione razionale” (proprio a voler banalizzare al massimo: non sprecare, limitarsi allo strettamente necessario, cosa che indubbiamente noi non siamo stati abituati a fare, in campo farmaceutico). L’avventura slava è durata quasi un anno, ha portato tanti amici nuovi, sia fra i montenegrini che fra i colleghi delle ONG, e anche tanta consapevolezza in più rispetto a quello che sta succedendo in questa parte di mondo: mi pare che anche i numerosi momenti difficili siano stati tutti in qualche modo arricchenti (se non “in diretta”, almeno quando rivisti a posteriori!).

Ma una volta che si è diventati farmacisti nomadi, è difficile fermarsi: un po’ per la curiosità, la voglia di sapere e di continuare a conoscere e scoprire; e molto per la voglia di essere là dove il nostro intervento professionale si rivolge ai bisogni più essenziali.

E così ho continuato per questa strada, destinazione Africa. Lavorando “sul terreno” africano, ho scoperto paesi duri e affascinanti come il Sudan, il Centrafrica, il Kenya, il Malawi; ho iniziato a capire come vive la gente nei cosiddetti “least developed countries” (quelli da uno o due dollari al giorno pro-capite) e quali sono le responsabilità della nostra società nei loro confronti; ho incontrato tantissima gente in gamba, ed anche alcune persone straordinarie; ho vissuto momenti esaltanti, e momenti di puro sconforto; ho pure scoperto le nostre (dei farmacisti) altre e spesso trascurate potenzialità professionali (pianificazione farmaceutica, formazione del personale sanitario e non destinato a gestire e prescrivere farmaci, supporto tecnico alle centrali d’approvvigionamento regionali e alle reti di distribuzione, sanità pubblica, tematiche più “politiche” sul diritto alla terapia per tutti…); e per la serie “gli esami non finiscono mai”, mi sono pure sottoposta, dieci anni dopo la laurea, ad un corso di sei mesi di Medicina Tropicale: è stata dura riabituarsi a studiare con metodo, ma ce l’ho fatta.

Per il momento, sono ancora una specie di farmacista nomade, sempre inquieta e sempre contenta di questa scelta. Molti vecchi amici e parenti pensano che io stia sempre rimandando le scelte definitive. E io ribatto con due domande, forse un po’ contraddittorie:

1. Ma sono poi obbligatorie, queste scelte definitive? …

2. E se fosse poi questa, la scelta definitiva? …

PS Approfitto del Traspi per fare un appello personale a chiunque sia giornalista o conosca dei giornalisti: ma perché non si parla, nei mezzi di comunicazione, della crisi che sta vivendo la Repubblica Centrafricana?

Il Traspiratore – Numero 41

di raffa