Ceccarelli per Traspi.net

Ottobre 21, 2001 in Libri da Gustare da Stefano Mola

24483(1)Intervista in esclusiva con l’autore de ‘Lo stomaco della Repubblica’, arguto dissacratore del costume politico, recentemente in America come inviato speciale.

Alla fine, ne ‘Lo stomaco della Repubblica’, si ha la sensazione che il rapporto col cibo sia uno dei modi più efficaci per raccontare l’evoluzione della società italiana del dopoguerra. Ne eri consapevole fin dall’inizio? Come è nata l’idea?

Confesso che l’idea di interpretare la recente storia d’Italia attraverso il cibo proviene da un sogno, nel senso tecnico del termine. Cioè: durante una vacanza, e in una situazione collettiva o meglio familiare in cui il mangiare richiedeva per forza di cose un surplus di decisioni e mediazioni, qualcosa insomma che aveva a che fare con il potere, ecco, io una notte sono andato a dormire, e mi sono sognato che avrei potuto fare questo libro. In tale frangente notturno, ebbi anche incoraggiamenti onirici rispetto ai quali non mi sentii di rispondere con la pigrizia, che pure è grande e preventivo antidoto alla fatica.

In realtà, lo schema del saggio e anche un po’ la sua pedanteria – quella smania di essere esaustivo e che probabilmente non alleggerisce il discorso – è più o meno la stessa del mio libro precedente: “Il letto e il potere” (sempre Longanesi, 1994), in cui però a far da filo conduttore delle vicende degli ultimi cinquant’anni c’era il sesso.

Sia il sesso che il cibo – come si intuisce – hanno a che fare con il corpo; e siccome il corpo ce l’hanno tutti i viventi; e siccome spesso fa cortocircuito, nella sua privatezza, con la vita pubblica accompagnandola o condizionandone gli sviluppi, questo mettere energie primarie al centro del racconto consentiva un approccio che fosse il meno ideologico possibile alla storia d’Italia. Così mi sono orientato, o così spero che risulti. Fin dall’inizio avevo un’idea di come il libro si sarebbe organizzato (scansione temporale, digressioni tematiche, lunghezza dei capitoli). Ma soprattutto mi stava a cuore quel che non sarebbe dovuto essere: un ricettario, uno studio gastronomico, un’opera di lieve intrattenimento su un argomento “minore”. Poteva venir fuori – e forse è venuta fuori – una cosa cervellotica, un po’ stramba, maniacale. Ma non futile.

Grazie alla ricchezza delle note, il libro è anche uno strumento per approfondire temi, personaggi, momenti storici. Come hai proceduto nel lavoro di ricerca e documentazione?

Le note sono croce e delizia degli autori, mentre gli editori ne diffidano al punto da sconsigliarne la pubblicazione. Per me costituiscono un tributo di serietà e di approfondimento riservato al lettore, la prova che l’autore non ha tirato a campà, ma s’è impegnato, magari pure con qualche accentuazione ossessiva, sperabilmente compensata dal fatto che ogni dieci note, mediamente, se ne trova una curiosa, sfiziosa, che dà il senso di un personaggio, o di un’epoca.

Questo dal punto di vista dell’impostazione e della confezione. Sul piano documentario, il lavoro di ricerca è stato senz’altro il più febbrile e divertente. Si sfogliano quintalate di carta, in contesti editoriali molto diversi, ma è come buttare la lenza o a volte la rete. Da giornalista, ritengo che i giornali siano un tipo di fonte molto particolare, che rende ben al di là del valore di verità storica. Le annate offrono colori, cornici, filtri, prospettive e movimenti. Se nei libri ci può essere – nei limiti del possibile – “La Risposta”, nei giornali c’è sempre di più di quanto si pensi. E molto c’è anche nelle foto, nelle immagini, nelle figure, specie se viste con il senno di poi.

Comunque: biblioteche, collezioni di giornali, libri accumulati in casa per vocazione collezionistica e ritagli di giornali. Segnarsi sempre tutto, per le note.

Nello stomaco della repubblica, chi ha il ruolo del succo gastrico?

Non saprei chi ha il ruolo del succo gastrico. La metafora rimanda a qualcosa di acido che corrode, consuma, metabolizza e fa digerire all’interno di un universo chiuso e concluso. Forse è il tempo, o la storia stessa a svolgere questa funzione meritoria. Il cibo è bisogno, conquista, identità, appartenenza, simbolo, consumo e tante altre cose importanti, ma sempre lì dentro finisce, e poi anche peggio. Questo in fondo rende uguali i protagonisti, e anche un po’ più veri.

Di cosa sono fatti il lavoro e la giornata di chi si occupa di costume politico?

La mia giornata lavorativa è leggere tante cose, preferibilmente diverse. Alcune se ne scoprono, e vanno ad arricchire il sapere, la memoria, talvolta dandoti anche l’illusione che siano utili a capire i principi universali. Altre cose da leggere, sui quotidiani principalmente, ti danno delle conferme – spesso solo apparenti – di quel che senti o di quel che ti pareva di aver capito. Ipotesi di lavoro, analogie, somiglianze, ricorrenze. Ritaglio molti articoli e li classifico. Questo mi prende un sacco di tempo. Poi cerco di leggere libri, anche pallosi o impegnativi, sforzandomi di capirli. E li conservo, a discapito di spazi. Credo che i romanzi anticipino la realtà, e che nella poesia sia possibile cogliere brandelli di assoluto. Ma purtroppo mi sento un po’ carente. Vado molto spesso on line, dove appago i più scombinati impulsi di curiosità, il più delle volte meravigliandomi per le straordinarie potenzialità che offre la rete e più in generale l’evoluzione tecnologica.

Poi parlo molto con i miei colleghi di redazione, e con chi mi telefona quando non sono pressato da impegni. Credo molto nel dialogo e nella conversazione disincantata, volgarmente definibile “cazzeggio”. Penso che molte belle idee vengono da lì, soprattutto quando c’è gratuità e allegria. Vorrei vedere più televisione, almeno i tg, che sono così importanti nell’agenda politica e giornalistica, ma non ci riesco mai. Quando mi ci metto di buzzo buono, mi annoio. Terribile credo che sia l’informazione-intrattenimento, anche se devo riconoscere che alcuni secondi di spettacolo valgono – dal punto di vista della rappresentazione – ore e ore di noia.

Parlo molto poco con le persone di cui devo scrivere. Un po’ perché i politici hanno codici differenti dai miei, spesso mi pare che recitano, in genere non capiscono che cosa vado cercando. Un altro po’ perché dopo che li hai conosciuti e ci hai parlato di persona, hai delle riserve a scriverne con distacco ironico, e non mi va di fare la figura di quello cattivo o dispettoso, o che si crede chissà chi.

Sei appena stato in America come inviato, all’indomani dell’attentato alle torri gemelle. In una bella serie di articoli per La Stampa hai descritto e approfondito stimoli, emozioni, sensazioni, spunti di riflessione che là hai raccolto. C’è qualcosa sopra tutto che ti è rimasto, o che non hai ancora avuto modo di raccontare?

In America, dopo il bombardamento delle due torri, è stato un lavoro molto impegnativo. E’ stato difficile arrivare sul posto; è stato difficile trovarsi fuori casa, fuori contesto, senza l’archivio, con altri protagonisti e i giornali scritti in un’altra lingua; è stato difficile anche convivere con le proprie emozioni, in mezzo a tutto quel dolore, a tutti quei funerali.

Scopertasi molto più fragile e vulnerabile di quanto credesse, la società americana si è come de-programmata: da un lato si è persa, dall’altro si è come ritrovata in se stessa. Sono riuscito anche lì a scrivere di cibo: di come, dopo il trauma, fossero comparsi disturbi di alimentazione; di come certe cose fossero presentate come capaci di risollevare l’animo; di come certe altre – tipo la torta di mele – si riscoprissero in quanto patriottiche. Mentre ero lì ha titolato il Washington Post: “American as an apple pie”. Americani come una torta di mele. Ho pensato: allora davvero tutto il mondo è paese. Cambiano solo i cibi, e gli stati dell’animo.

di Stefano Mola