Appunti sud-sudanesi (di cielo e di terra)

Marzo 30, 2001 in Viaggi e Turismo da Redazione

Domanda: ma cosa diavolo ci faccio io qui? Chiunque mi conosca, per avere condiviso la quotidianita’ delle vacanze o qualche trasferta lavorativa, sa perfettamente che adoro il treno e che ho un pessimo rapporto con gli aeroplani: e perche’ ti fanno perdere il senso del viaggio catapultandoti in poche ore dall’altra parte del mondo, e perche’ gli aeroporti sono freddi e tendenzialmente tutti uguali e, massimamente, perche’ alla prima turbolenza o al primo vuoto d’aria mi aspetto subito il peggio, tipo caduta in avvitamento e schianto inesorabile su un campo minato. Ergo: cosa diavolo ci faccio io qui, su un piccolo Caravan a cinque posti, monomotore e monopilota, solido come una Centoventisei, che arranca faticosamente nel pieno di una turbolenza a tre-quattromila metri di quota sulla vasta pianura sudanese, sballottato come un aquilone nelle mani di un pargolo al suo primo giocattolo, per atterrare -forse- su un’airstrip corta e sempre troppo bagnata?!!!

La risposta e’ abbastanza semplice: vado in Upper Nile, Sud Sudan, per il mio lavoro di cooperante interazionale (ci chiamiamo cosi’). Piu’ difficile invece spiegare che cosa sia l’ «airstrip» appena citata, anche perche’ –e qui devo confessare la mia cupa ignoranza- non so come si dica «airstrip» in italiano. Forse «striscia aerea » ?…. Mmmh, non mi convince affatto, e la pigrizia acuta inesorabilmente scatenata dal panorama grigio e spento del nord Italia in inverno (scenario nel quale riordino i miei appunti di viaggio) mi porta a non tentare neppure una modesta verifica sul dizionario di famiglia. Dunque, rassegniamoci a parlare anglofilicamente di «airstrip »: che qua, nel Sudan del Sud, altro non e’ che una normalissima striscia di terra, o di prato, o di terra spelacchiata, lunga mediamente dai 500 ai 1000 metri, su cui pioggia permettendo atterrano a vista volenterosi aeroplanini che scaricano cibo, medicinali, materiali, operatori della cooperazione internazionale e via discorrendo. Ogni tanto qualcuno non atterra, perche’ dopo tre o quattro ricognizioni a bassissima quota il pilota decide che l’airstrip e’ troppo bagnata; ogni tanto qualcuno atterra lo stesso e si impantana; ogni tanto, tutto fila a meraviglia. Qualsiasi cosa succeda, avviene comunque sotto l’occhio attento dell’intero villaggio, che segue con attenzione e divertita curiosita’ le peripezie dell’aeroplanino e dei suoi buffi passeggeri. A proposito: ora, la vostra buffa passeggera (e cronista) scende dall’aereo, e a sua volta inizia a considerare con attenzione e divertita curiosita’ questo mondo tanto antico e per lei tanto nuovo.

Il paesaggio dell’Upper Nile e’ inesorabilmente piatto, piatto, piatto, a perdita d’occhio non esistono rilievi ma soltanto pianura sterminata, in cui si le macchie alberate si alternano alle paludi (che portano, e’ vero, la malaria e la bilharzia, pero’ regalano pure l’acqua ed il pesce): nessun punto di orientamento, a meno che non si conoscano a menadito la zona, i villaggi, e la posizione di ogni singola acacia. E’ una terra di colori forti, giallo, blu, verde, c’e’ pure il rosso mattone di certi tronchi di acacia, ed e’ una terra senza pietre, potresti percorrere chilometri alla ricerca di un ciotolo senza trovarlo mai, qualcuno mi racconta di avere scavato ventidue metri di pozzo senza incontrare altro che strati di terra e sabbia, terra e sabbia, terra e sabbia. Questa terra e’ pure assolutamente impermeabile, dopo la pioggia l’acqua resta stagnante fino a che non evapora, e intanto la gente del villaggio continua a camminare scalza come ha sempre fatto nel corso dei secoli che qua si ripetono –forse- senza avvicendarsi, mentre “noi” ripariamo le pallide e delicate estremita’ in stivaloni di gomma nera o gialla, che ricordano tanto quelli che usavamo, da giovanissimi italiani in eta’ prescolare, nei primissimi anni Settanta.

Ma torniamo in Sudan: l’airstrip sta sempre accanto al villaggio, e allora diamoci un’occhiata, al villaggio, che in Upper Nile e’ fatto di capanne costruite dalle donne, coi muri di fango ed il tetto di foglie. Qui, in insediamenti sparpagliati sulla pianura, vivono i Nuer, popolo nilotico di pastori alti e snelli e forti, spesso decimati dalla fame, dalla malaria, dalla diarrea, dalla tubercolosi e dalla stupida guerra che da quarant’anni massacra questo Paese ed impedisce alla sua gente di crescere e di vivere. I Nuer portano tutti, uomini e donne, i capelli pressoche’ rasati. I ragazzi e gli uomini hanno in fronte le cicatrici provocate dai sei tagli paralleli che vanno da una tempia all’altra e che sono praticati al momento dell’iniziazione alla vita adulta; le donne invece esibiscono spesso sul volto complicate cicatrici decorative, procurate con appositi strumenti dalla punta arroventata, che esprimono un concetto di bellezza a noi decisamente ostico. La vita, i ritmi quotidiani, l’economia di sussistenza, il tipo di abitazione e di alimentazione e di struttura sociale, qui tutto pare esistere nel modo in cui gia’ esisteva al momento della creazione. E secondo gli stessi ritmi di allora si vive e si muore: luce-buio, notte-giorno, stagione secca-stagione delle pioggie, pace-guerra, vita-morte……. Per molti fra la gente di qui, cresciuta in un remoto villaggio in cui neppure le monete sono di uso corrente, la stessa parola “guerra” significa ancora “soltanto” scontri tribali o raid per il bestiame, pochi sanno di quello che davvero succede fra Nord e Sud, e ancor meno forse sanno che il Governo di Karthoum li bombarda perche’ hanno la sfortuna di stare seduti su un mare di petrolio (che poi, in ambedue i casi, il motore della guerra e’ quello di sempre, un motore economico: peccato che i mezzi dispiegati per il petrolio siano incommensurabilmente superiori a quelli utilizzati per pochi capi di bestiame!).

Insomma, per riassumere il tutto ancora (ops!) in termine anglofili, stiamo “in the middle of nowhere”, un posto in cui possiamo permetterci piccole emozioni da piccoli esploratori, del tipo trovare uno scorpione nella tenda, incrociare un buon numero di serpenti nelle immediate vicinanze della stessa, oppure inciampare nella gallina che ha asilo politico fisso in cucina, perche’ siamo in stagione delle piogge e le cuoche Nuer hanno paura che i pulcini (preziosissimi futuri polli!) se restano fuori affoghino nel fango. Un posto in cui i rumori di fondo della notte possono essere voci di bambini, grilli, tamburi e cori, o una vecchia radio sgangherata che gracchia sgraziata parole che non so afferrare. Un posto in cui ogni tanto qualcosa o qualcuno interrompe l’illusione della visione bucolica per rammentare che stiamo in un Paese in guerra: un ferito da proiettile, un drappello di armati-alla-meno-peggio, e soprattutto il sinistro suono degli Antonov che ci sorvolano in alta quota per andare a bombardare un poco piu’ in la’.

Un posto da ricordare per la bellezza della sua terra e della sua gente, un posto da non dimenticare, perche’ non bisognerebbe mai scordarsi che esistono, in questo mondo per noi cosi’ confortevole, altri posti, altrettanto belli, magari piu’ caldi e piu’ luminosi, e segnati pero’ da una sofferenza tanto ingiusta quanto evitabile. Intanto, all’orizzonte dell’aeroplanino ricompaiono delle alture, e questo significa che di riflessione in riflessione ci stiamo lasciando il Sudan alle spalle, e li’ davanti c’e’ il Kenya che aspetta….

di raffa