USA: nel segno della lentezza

Febbraio 12, 2001 in Cinema da Redazione

Dopo due o tre anni piuttosto scialbi, nella stagione 1999/2000 la cinematografia statunitense ha rialzato la testa. In un cinema sempre più vorticoso e veloce (si pensi alle due ore di forsennate sequenze di Matrix) alcuni registi hanno voluto rallentare l’azione, una sorta di avvicinamento allo standard europeo, più lento, più povero e più solido dal punto di vista della sceneggiatura.

E così, se si era cominciato con i colossi da box office La mummia e Star Wars – Episodio I, nella seconda parte della stagione si sono potuti gustare due film molto simili come American Beauty e Magnolia (guarda caso il nome di due fiori). Ma già Sesto senso aveva fatto preludere ad una decelerazione dell’azione. Una sorpresa negli Stati Uniti, il film è rimasto per parecchi mesi nelle nostre sale grazie al passaparola. Thriller psicologico ad alta tensione, con un finale che lascia a bocca aperta lo spettatore, il film è tutto incentrato sulla figura di un bambino che vede gli spettri delle persone defunte. Ad aiutarlo c’è uno psichiatra infantile ben interpretato da Bruce Willis, che per una volta ripone nell’armadio la canottiera.

Anche Scorsese, nella sua perenne esplorazione dei generi cinematografici, ha regalato ai suoi affezionati spettatori un film dai tempi quasi aristotelici. Al di là della vita è un film a cavallo fra realismo e misticismo sul mestiere dell’infermiere notturno, interpretato con disincantato candore da Nicholas Cage.

Non si comprende invece come, a sette mesi dall’anteprima italiana al Torino Film Festival, non sia ancora giunto nelle sale Rushmore, sicuramente uno dei film più belli dell’anno. La pellicola, nella quale compare anche il sempre sarcastico Bill Murray, è una grottesca rivisitazione del college movie, genere che negli anni ’80 ebbe un notevole successo anche qui da noi. Protagonista è uno studente che frequenta il college a Rushmore, una cittadina dell’East Coast. Pluribocciato e compagno di classe di ragazzi che hanno quattro anni in meno di lui, il protagonista è l’animatore di tutte le attività parascolastiche (regista della compagnia teatrale del college, presidente dei vari circoli culturali), ma non gliene va una dritta, né a scuola, né quando s’invaghisce della sua insegnante, iniziando così una guerra senza esclusione di colpi con Bill Murray, un eccentrico miliardario.

La perla della stagione è stata American Beauty, una riflessione dolceamara sulla mezza età e sulla giovinezza, sull’infelicità che si cela dietro una facciata felice. Lester, il protagonista, s’infatua di un’amica della figlia e riscopre come d’incanto sensazioni che erano sopite da tempo: l’erotismo, la voglia di stare bene con se stesso e con il prossimo, di parlare e di ridere. Per l’interpretazione di Kevin Spacey un Oscar non basta, ci vorrebbe un monumento, mentre, per quanto riguarda Sam Mendes, si vede che dietro al neoregista c’è la mano di papà Spielberg che, da quando ha inaugurato la Dreamworks, non ha più sbagliato un colpo.

Sulla stessa lunghezza d’onda di American Beauty è stato Magnolia di Paul Thomas Anderson, già apprezzato in Boogie Nights. Tom Cruise, Jason Robards, una bravissima Julianne Moore ed altri validi caratteristi come William H. Macy danno un affresco d’America forse ancora più pregnante di America Oggi di Altman, film che gli somiglia moltissimo. Un film sul peso della colpa, sulla causalità degli eventi, sul pentimento e sulla solitudine. Ed è proprio la lentezza col suo peso ed i suoi tempi morti a scandire il senso di colpa, insieme ad un’ossessiva colonna sonora, con un finale rubato alla Bibbia. Un gran bel film che si è guadagnato l’Orso d’Oro di Berlino.

E’ tornato sugli schermi anche Tim Burton con Il mistero di Sleepy Hollow. Peccato, si poteva fare meglio. Il film ha avuto un grande lancio pubblicitario cui non è corrisposto un eguale impegno da parte del genietto dark di Hollywood. L’opera è bella, ma è priva di un’anima.

Adeguatosi allo standard hollywoodiano. Luc Besson ha regalato agli spettatori l’ennesima pellicola sulla Pulzella d’Orleans. Il suo Giovanna d’Arco rilegge la storia della santa in chiave psicanalitica, facendo della ragazza un’invasata religiosa cui Milla Jovovich presta lo sguardo allucinato ed i tratti androgini. Ci sono anche Vincent Cassel e Tcheky Karyo (dalla douce France), ma per commercializzare il film i soli effetti speciali e la bravura di Besson potevano non essere sufficienti. Allora giù con Faye Dunaway, John Malkovich e Dustin Hoffman ed il gioco è riuscito. Una bella epopea, anche se i mitici Nikita e Leon restano inarrivabili.

La maschera di Terence Stamp ha dato carisma ad un film anomalo ed antihollywoodiano, L’inglese di Steven Soderbergh, il regista più produttivo degli ultimi tempi, basti pensare che nel giro di 17 mesi sono usciti in Italia tre suoi film: oltre al già citato Inglese, il thriller Out of Sight e il “sociale” Erin Brockovich.

Se si parla di carisma non si può non citare l’attore che più di ogni altro ne ha da vendere, ovvero Al Pacino. Se Ogni maledetta domenica non è stato certo irresistibile, Insider – Dietro la verità è da considerare sicuramente il miglior film d’impegno sociale della stagione. Il mitico Al è un giornalista alle prese con uno scottante caso di danno alla salute pubblica da parte di una industria di tabacchi. La sua fonte è un irriconoscibile e bravissimo Russel Crowe; è un’incontro-scontro fra due personalità forti, fra il diritto di cronaca ed i doveri morali. Un bel vademecum di deontologia professionale.

Con Man on the Moon Jim Carrey si è riconfermato non solo attore di smorfie e facce buffe, ma talento sottovalutato di una Hollywood controcorrente. E controcorrente è anche Milos Forman, regista ceco che predilige soggetti biografici.

Per concludere bene l’annata un bel giallo, Judas Kiss, e un film d’azione degno di questo nome, Il gladiatore, che ha riportato alla ribalta il tema “romano” accantonato da qualche decennio. Ridley Scott più Russell Crowe e la miscela è esplosiva. Dialoghi e passioni shakespeariani, attori all’altezza, cattivi irritanti e buoni stoici, ambientazioni perfette, caratteristi del calibro di Oliver Reed e Richard Harris hanno fatto del film una delle sorprese della stagione.

di Davide Mazzocco