Tute da lavoro color blu-chiazzato-di-maleodori

Ottobre 30, 2003 in Sudate Carte da Redazione

Non basta la nebbia per nasconderli.

Non basta il traffico a soffocarne i fischietti.

Mi sveglio e sono loro il mio primo suono, il mio primo sguardo dalla finestra, il mio primo pensiero.

Giovedì 5 dicembre 2002

Mirafiori, capitale della preoccupazione, reame del destino incerto, valle della nebbia eterna. Stropiccio gli occhi e il primo lampo neuronale mi offre l’immagine delle tute da lavoro color blu-chiazzato-di-maleodori. Penso a mio padre neopensionato fuori dalla bufera per un soffio, al suo passato operaio, al boom economico, all’A112 Abarth, all’Italia in bianco e nero dei filmati e al nero e bianco delle lotte sindacali. Quanto poco conosco di quegli anni. E chissà quanto di quello che credo di conoscere non è altro che stereotipo, direttamente impresso nella memoria dall’imbuto televisivo, bypassando impunemente i filtri di una presunta intelligenza.

Faccio colazione solitario in cucina e mi chiedo se il sudore degli uomini sia tutto uguale o se quello di alcuni sia migliore. Domanda banale? Retorica populista? Eppure a pensarci bene ci sono tanti tipi di sudore. C’è quello dorato del turista il 15 d’agosto a Ibiza, quello vittorioso di Abebe Bikila il 10 settembre a Roma, quello emozionato di Neil Armstrong e Edwin Aldrich il 20 luglio, lassù. E poi c’è il sudore incravattato di certe riunioni aziendali con il condizionatore guasto e quello maleodorante sulle tute, segnato da innegabili pezzature ascellari. Tute da lavoro color blu-chiazzato-di-maleodori.

Infilo le scarpe ed esco. Un sudore freddo avvolge la città, il quartiere, le nostre case. Incontro Adriano, rumeno, 34 anni, da quattro in Italia. Adriano è uno che suda. Suda ed è felice anche se ora è uno schiavo. L’ignoranza tecnologicamente avanzata dell’occidente lo ricatta. Lavora più di quello che guadagna, ma non può farci niente, o così o disoccupazione, revoca del permesso di soggiorno, centro di permanenza temporaneo, espulsione, miseria. Mi saluta con un saltellante accento dell’est:

“Ciao Paolo, che vogliono queli? Perché non vano a lavorare?”

E come posso io, in tre minuti, spiegargli la crisi, la paura, le ragioni e i torti, le colpe? Come racconto le lotte sindacali, gli scioperi e i diritti dei lavoratori a chi ha il solo diritto di sudare? Lasciare la propria terra è uno strappo all’anima, un oltraggio al cuore e la fame non si cura di tutto ciò. Lo stomaco viene prima del cuore nella lotta per la sopravvivenza.

“Non vogliono essere licenziati – semplifico senza pudore – hanno paura di perdere il lavoro”

“Anche io non voglio essere licenziato, proprio per questo vado a lavorare, non a gridare per strada”

“Sì, capisco, ma non è proprio così semplice, è un discorso più complicato…”

“Lo so, lo so, stavo scherzando, ciao, buona giornata”

“Ciao, saluta Rodika e Benjamino”

Proseguo, il mento ben ficcato nella sciarpa, le mani strette in tasca, la mente altrove. Un uomo sui quaranta mi sorpassa, lo sguardo alto, una bandiera in mano, la voce piena. Grida slogan, semplifica un pensiero, esprime rabbia. Si unisce alla folla, lo perdo di vista, poi riaffiora e sparisce di nuovo come le bici nella nebbia. Chissà lui quanto ha sudato. O forse no, forse è uno che fa l’imboscato, che sa defilarsi quando il lavoro si fa pesante, rendersi abilmente invisibile quando il capo cerca qualcuno per un incarico. Le contraddizioni e i compromessi del mio fantasticare si fanno bolla di sapone quando il tram numero dieci scintilla alla mia destra. Salgo e l’olfatto riconosce, nauseabondo, l’odore della gente. Il puzzo di fatiche quotidiane, di piccole nevrosi familiari, di attese impazienti e dell’ostile indifferenza piemontese s’addensa alle narici.

A lezione il professore spiega i turbocompressori. Non reggo, non è giornata, le palpebre si fanno di piombo e l’inchiostro sul quaderno sbiadisce. Alla terza gomitata del mio vicino raccatto le mie carte distratte e me ne vado. Inutile opporsi, vano è l’accanirsi quando il molle budino cerebrale si rifiuta. Anche lo studio costa sudore, un sudore relativo perché ognuno ha i suoi tempi e le sue capacità, i suoi talenti e le sue debolezze. Oggi non sono disposto a sudare, non me la sento. Ondeggio vagabondo in corridoi deserti, mi rifugio al bar, sorseggio uno svogliato marocchino. Quando lascio lo sgabello è quasi la mezza e le tumultuose folle del cambio di lezione affollano gli ambienti riscaldando di chiacchiere l’orecchio.

Il seguito della mia nebbiosa giornata è un susseguirsi di fallimenti, la pasta scotta, il sonno che ritorna traditore in biblioteca. E più mi chiudo nel guscio della mia pigrizia più è difficile uscirne. Aspre si fanno le domande, spesso disoneste le risposte. Neanche il roboante shopping natalizio riesce a stimolarmi, anzi, altro non fa che accrescere in me la misantropia e il ribrezzo quotidiano verso il piccolo mondo scintillante della nostra medioevale modernità.

Al ritorno a casa, Corso Tazzoli è un luccicante fiume di lamiere, fari, clacson, intriso di nevrosi da ritardo. Nel bisbiglìo fumante di marmitte e tra i disillusi clacson, posso intuire le bestemmie a denti stretti e intanto salgono, dall’altra, ancora le bandiere, gli slogan e i fischietti. E’ la protesta di chi reclama il diritto di sudare onestamente, di chi rivendica la dignità di quelle tute da lavoro color blu-chiazzato-di-maleodori.

La notte ha ormai posato ogni bandiera e tace il quartiere tra i semafori che tagliano la nebbia con gialla intermittenza. Oggi non ho avuto voglia di “fare”, non me la sono sentita di sudare. Domani, forse. Oggi non ho voluto assaporare neanche il privilegio di sudare per svago, divertimento, piacere e forse dovrei imparare a farlo più spesso. No, non aspiro a diventare la zavorra della società, solo vorrei poter valutare meglio, vorrei evitare di sprecare le mie forze in vanità e gingilli. Forse dovremmo farlo un po’ tutti, dovremmo smettere di versare litri del nostro e dell’altrui sudore per accumulare avidità, ammucchiando in un angolo di questo pianeta un’opulenza sterile, ordinatamente stipata in palinsesti programmati e caoticamente agognata da brulicanti telespettatori all’insegna di un ossessivo produci-consuma-crepa di musicale memoria. E allora proviamo a ritrovare il senso delle cose, a rivedere con serietà ciò per cui vale la pena di sudare. Solo così potremo, con orgoglio ed umiltà, rendere anche solo di poco migliore il pianeta che lasceremo in eredità ai nostri figli. Solo così potremo portare a testa alta la nostra tuta da lavoro.

Ovviamente color blu-chiazzato-di-maleodori.

di Paolo Baldissera