PABLO

Aprile 27, 2008 in Racconti da Redazione

MareSeduto sulla spiaggia Pablo guardava il mare. Aveva imparato a comprenderne la voce ed ogni suo moto smuoveva qualcosa nei recessi della sua mente. Da quanto tempo era seduto lì? Un’ora, due? Ma, ripensandoci, poteva dire di esserci da anni ormai, tutta la vita. Non c’era un solo ricordo in cui il mare era inesistente. Era sempre presente, un secondo padre. Il mare. Infinito, reale, sfuggente. Era al mare che aveva chiesto aiuto, con cui aveva parlato, a cui aveva rivolto preghiere: una distesa d’acqua che lo aveva sempre protetto e gli aveva insegnato a pensare, a capirsi. Gli aveva suggerito versi della sua esistenza e tramandato il ricordo di secoli di storia vissuta dentro sé. Quando aveva un anno, sussurrava se stesso a questo grande protettore. Gli chiedeva i perché delle cose, nella sua lingua incomprensibile agli adulti che lo sentivano. Pablo aveva imparato il suo linguaggio, quello delle onde e delle maree. Aveva sfuggito la compagnia degli umani, ancora immaturi per poter condividere il suo amore. Anche quelli che si bagnavano dentro quell’infinità o navigavano, non erano in grado di essere suoi amici, di comprendere l’essenziale. Era solo la superficialità del mare ad attirarli. Ma lui, Pablo, mai si era allontanato dal suo amico. Mai aveva dimenticato la sua comprensione, mai lo aveva tradito. Infiniti giorni trascorsi sulla spiaggia, tra le carezze e le allegre ondate del suo compagno. Non c’era nient’altro di così bello nella vita per lui.

Il mare gli aveva raccontato di un altro uomo, solo uno, che era stato capace di raggiungere il suo spirito. Anche lui si chiamava Pablo. Pablo Neruda. Era uno scrittore, un poeta e amava la natura, la raffigurava come Dio. E grazie alla comunione col mare erano nate le sue più grandi opere. Quando glielo raccontò aveva sette anni. E lesse tutto ciò che Neruda aveva lasciato come testimonianza della sua esistenza. Da allora aveva vissuto segnato da quei versi, versi di dolore e amore mescolati nel suo sangue ardente di vita. Pablo solo contro il mondo. Solo insieme al mare. Ottanta tre anni di pensieri, di stupori, di emozioni. Di poesie, di parole affogate nel sale e di muta comprensione. A volte anche il mare aveva bisogno di conforto… E Pablo lo abbracciava, lo stringeva forte a sé, fino a quando non smetteva di singhiozzare. Era vecchio, il mare. E forse anche per questo, mentre parlava, piangeva piano. I suoi occhi avevano visto troppe crudeltà, troppe vite erano state ricacciate nel buio. Qualcuno si buttava nella sua massa, pieno di tristezza e angoscia, desideroso di morire. Allora lui cercava di togliere da quegli occhi l’infinita malinconia e ridare il sorriso. Con le sue braccia cercava di farlo riemergere dagli abissi. Ma quello no comprendeva, si agitava, annaspava… Fino a quando il Mare, scorgendo lo sguardo morente, non lo abbandonava a se stesso, preparando una piccola fossa per rinchiudere questo altro fallimento dentro sé. Forse erano tutti i fallimenti a farlo piangere. O forse era la sua infinità. O altro di cui non trova spiegazione. Forse era quello che Neruda gli disse, a suo tempo: “A volte sono stanco di essere un uomo”. Forse anche il mare si sentiva stanco di essere tale. Avrebbe voluto correre, amare qualcuno, potere aver paura di piccole avversità. Ma non gli era permesso. E viveva il suo inferno. Solo con Pablo si lasciava andare, si sfogava. Sapeva che comprendeva. Nei suoi occhi c’era un azzurro limpido e puro, senza tradimento e impurità. Era solo Pablo e per lui avrebbe fatto qualsiasi cosa. Erano diventati una sola essenza, si capivano senza parlare. E’ semplice così stare insieme. Basta pensare al proprio dolore e alla propria esistenza per sentire i pensieri di conforto dell’amico. “Pablo, cosa vuol dire essere uomini? Come ti senti ad avere dei limiti, dei confini?”… “E’ triste, a volte. Spesso, soprattutto quando si è soli e non si ha nessuno con cui confrontarsi, ci si sorprende a chiedersi se davvero sia tutto qui. Se la vita di un uomo sia solo fata di sudore, dolore e amarezze, se c’è qualcosa in più che noi non vediamo. Sono pensieri che si fanno, sai? E allora si tenta di trovare una scappatoia, una via d’uscita. Si cambia. C’è che si adatta e continua l’esistenza, ma c’è anche chi cerca disperatamente la parte mancante di sé, che si sforza di guardarsi dentro, con risultati sempre più deludenti.

Quando si è in questo stato d’animo l’essere confinati porta alla disperazione. Ci si ritrova a scrutare sempre gli stessi angoli, a sbattere contro gli stessi spigoli. Immutabile, impassibile. Niente universi, solo barriere. Essere uomo e chiedersi il perché è deleterio, porta solo all’annullamento dell’essere. Ti sei mai posto il problema: esisto? O, ancora più terribile, posso esistere? Dover chiedere il permesso per ogni tuo respiro a Qualcuno di indefinito… Il non conoscere l’identità di questo Qualcuno e dover accatastare ogni tuo desiderio porta solo, alla fine di tutto, a possedere una scatola di rimpianti…” “Io ho visto cose che non potresti immaginare, scoperto tesori immensi, assistito a scene impressionanti. Ma nulla mi stupisce come l’essere vivo. Il sapere che vedo, parlo, penso. Ma essere così vasto, così infinito porta a non conoscere di sé che una parte infinitesimale. Non sapere dove si inizia e dove il nostro essere giunge alla fine è ancora più brutto che l’essere “intrappolati”. Invidio te, che sbatti sempre contro gli stessi spigoli. Io ancora non ho scorto nemmeno una parete… Ed è terribile non avere un proprio luogo. Milioni di uomini si imbarcano per l’America, l’Africa o chissà quali altre mete straordinarie. Sono carichi di sogni, illusioni… Non si rendono conto che ciò che rende la vita unica non è a miglia da loro, ma è più vicino ci quanto possano immaginare. Forse la vita si trova semplicemente nello sguardo di qualcuno, ma loro non l’hanno incontrata perché erano troppo occupati a cercare la mancanza tra i deserti e le praterie. Non vale la pena fuggire. Hai mai sentito parlare dei Tuareg? Nomadi del deserto che trascorrono la vita a passare da una duna all’altra, sostando poco tempo di tanto in tanto. Perché? E’ solo un’usanza oppure è un qualcosa di più radicato? Cosa cercano? Forse un posto dove riposare? Ti assicuro che no c’è luogo al mondo diverso. Tutto si somiglia. Puoi salire e oltre passare cento, duecento dune, ma il risultato non cambierà. Non è il luogo, sei te stesso”. Quante volte avevano fatto questo discorso? Pablo avrebbe voluto partire, il mare avrebbe voluto arrestarsi. Si invidiavano a volte ma erano certi, anche se non lo avrebbero mai ammesso, che se mai avessero avuto il coraggio di cambiare la loro realtà, niente sarebbe mutato. L’insoddisfazione e il desiderio di essere qualcun altro non li avrebbe abbandonati.

Pablo ricordava. Ottanta tre anni trascorsi senza un perché, il tempo si dilatava e si restringeva di continuo impedendogli di distinguere il vero dai sogni. Era davvero esistito? E poi, alla sua età, aveva ancora il vizio (se di vizio si può parlare) di porsi simili domande. La saggezza non dovrebbe portare alla pace interiore? Ed invece si poneva domande da sedicenne e non riusciva a evitarlo. Forse perché aveva sempre posseduto questo muoversi incessante dentro sé, quasi un moto di onde e di correnti e non poteva certo modificare il suo stato naturale. Neanche con la saggezza. Ma davvero il non porsi domande era saggezza? Non era forse stupidità? Chi vive senza una lacrima, senza una domanda, senza un mai il dubbio di stare semplicemente sopravvivendo a se stesso, può dire di avere vissuto davvero? Cos’era giusto? Cos’era il male?

Era circa un anno che lui e il Mare non si parlavano. Non c’era un motivo particolare, semplicemente pensava. Pensavano a tutto. A i vecchi discorsi ma anche a cose nuove, a teorie, sogni. Non ci è dato sapere di che portata
fossero tali pensieri. Ed ora Pablo si sentiva prossimo alla fine. Era vecchio, stanco e troppo debole per sorreggere ancora per molto tutte quelle domande a vuoto. Ruppe il silenzio per primo. “E’ giunto il momento di partire”. Queste parole suonavano strane alle sue orecchie. Ora che il destino aveva deciso per lui, ora che il suo sogno di vita di stava per realizzare, ora avrebbe voluto ancora un po’ di tempo, la paura lo stava prendendo a poco a poco. Il mare sapeva cosa intendeva. Avrebbe perso il suo amico e per questo lo ascoltava con una calma e una pazienza che sconcertarono un poco il vecchio. Voleva assaporare le ultime parole della persona che era riuscita davvero ad entrare dentro i suoi pensieri.

Ascoltarlo ancora per un poco era l’unica cosa che voleva. “Sai, ci ho pensato e molto anche. Ho vissuto con te ogni momento e se mi specchio dentro te vedo me stesso bimbo e adulto e ragazzo. Felice, triste, irritato. Tutto me stesso ti appartiene. E’ ora che tu possieda anche il mio corpo. Devo morire, lo sento, ma non voglio abbandonarti. Voglio che tu mi prenda con te. Ma non voglio che ti lo consideri un altro fallimento, non voglio che tu mi costruisca una tomba per seppellirmi nella tua memoria. IO voglio viaggiare dentro i tuoi pensieri, voglio unire la mia staticità con il tuo movimento. Forse così troveremo davvero la perfezione. Capisci? Voglio entrare nel tuo spirito definitivamente” Nella sua infinita saggezza il mare taceva, colmo di tristezza e malinconia per i tempi che, di lì a poco, sarebbero svaniti. Il cambiamento, pensava, non è mai positivo. “ E’ giunto il momento, amico mio, prendimi con te”. E Pablo si alzò, camminò, guardò il cielo e si lanciò nell’immenso blu. Sentì un abbraccio per tutto il corpo, un calore mai sentito… Umano… Era dolce morire così… Ma non stava morendo, viveva per la prima volta. E non si accorse mai che il Mare, che sapeva che non avrebbe più potuto parlargli, che avrebbe dovuto sopportare il vuoto dei suoi occhi persi, non seppe mai che aveva unito le sue lacrime con la sua essenza. Dolore e morte il risultato di un’esistenza. E nuove domande negli abissi…. HA DAVVERO SENSO TUTTO QUESTO?

COMPAGNI, SEPPELLITEMI IN ISLA NEGRA,

DI FRONTE AL MARE CHE CONOSCO, AD OGNI AREA RUGOSA DI PIETRE

E D’ONDE CHE I MIEI OCCHI PERDUTI NON RIVEDRANNO.

OGNI GIORNO D’OCEANO MI PORTO’ NEBBIA O INVIOLATE ROVINE DI TURCHESE

O SEMPLICE ESTENSIONE, ACQUA RETTILINEA, INVARIABILE,

Ciò CHE CHIEDEVO, LO SPAZIO CHE DIVORO’ LA MIA FRONTE.

OGNI FUNEBRE PASSO DI CORMORANO,

IL VOLO DI GRANDI UCCELLI GRIGI CHE AMAVANO L’INVERNO,

E OGNI CERCHIO TENEBROSO DI SARGASSI

E OGNI GRAVE ONDA CHE SCROLLA IL SUO FREDDO

ED ANCOR PIU’ LA TERRA CHE UN INVISIBILE ERBORIO SEGRETO,

FIGLIO DI BRUME E DI SALI, ROSO DALL’ACIDO VENTO,

MINUSCOLE COROLLE DELLA COSTA UNITE ALL’INFINITA ARENA:

TUTTE LE CHIAVI UMIDE DELLA TERRA MARINA

CONOSCONO OGNI GRADO DELLA MIA GIOIA,

SANNO CHE Lì VOGLIO DORMIRE, TRA LE PALPEBRE DEL MARE E DELLA TERRA…

VOGLIO ESSER TRASCINATO GIU’, NEL PROFONDO,

CON LE PIOGGIE CHE IL VENTO INFURIATO DEL MARE ASSALTA E STRITOLA,

E POI, PER CANALI SOTTERRANEI, PROSEGUIRE

VERSO LA PRIMAVERA SEGRETA CHE RINASCE.

-DISPOSIZIONI, PABLO NERUDA

di Alice Suella