Oggi è morto Mozart

Aprile 22, 2001 in Racconti da Redazione

Oggi è morto Mozart, il cane della vicina. La vicina è una vecchia che si trucca troppo e parla come se avesse una patata bollente in bocca. Mozart era un piccolo barboncino sempre pulito, bianco come il latte. La vecchia vicina diceva che non lo lasciava mai sporco e che Mozart era probabilmente più educato di quanto io lo fossi con lei.

Stamane è stata la prima volta che non ho visto Mozart tutto bianco, al contrario era tutto rosso e nero. Pareva la mascotte del Milan. La faccia era irriconoscibile, sotto quella grande ruota dell’autobus, mentre il resto del corpicino si dissanguava macchiando l’asfalto di Piazza Mancini in un pomeriggio dove il traffico e il sole mi facevano venir voglia di una bella limonata fresca. Ebbi disgusto per quella faccina a punta storpiata e imbruttita dalle gengive che fuoriuscivano dalla pelle delle piccole e tenere guanciotte che un tempo erano bianche come il latte.

Quando vidi l’accaduto mi chiesi perché i cani sono così stupidi da attraversare una strada trafficata senza nemmeno controllare il flusso d’auto. Poi la vecchia vicina fece tanto di quel baccano, tra sgrida e pianti, che mi infastidì e me ne andai al bar.

Ordinai una limonata fresca e ancora mi chiedo cosa avesse da urlare quella dannata megera. Quindi ho realizzato: un cane in meno sulla faccia della terra. Peccato, perché in fondo Mozart mi stava simpatico e sarebbe stato meglio che sotto l’autobus ci fosse finita la padrona.

Quando un paio d’ore dopo tornai a casa, la vecchia mi guardava con un volto smunto e con un paio d’occhi neri così grossi che sembrava avesse gli occhiali da sole. La scrutai bene e capii che era colpa di tutto quel trucco che si metteva e che s’era andato a mescolare disordinatamente con le lacrime in tutta la faccia, come un dipinto sotto la pioggia. Se ne stava fuori la porta e aveva in braccio il collare di Mozart.

Le dissi che mi dispiaceva e lei non rispose niente. Persi tempo a cercare le chiavi di casa e non resistetti alla tentazione di guardarla perché sembrava stesse aspettando qualcuno, lì in mezzo alle scale, tra un singhiozzo e l’altro.

Chiesi: “Le serve aiuto?” Non rispose niente anche questa volta. Così rificcai le chiavi in tasca e dalla tasca feci uscire il pacchetto di Marlboro. Aprii il pacchetto e ne estrassi una sigaretta. In mezzo alle sigarette c’erano i fiammiferi; estrassi anche quelli e accesi la mia dose quotidiana di nicotina. Mi fa sentire meglio, non c’è storia. Nonostante tutti quei mangiamonti e sapientoni contro il fumo che vogliono “aiutarti”, cercando di farti smettere e ti chiedono in continuazione perché vuoi accorciare la tua vita.

La vecchia megera aprì bocca per la prima volta dopo dieci minuti: “Me ne daresti una, ragazzo?” Mi avvicinai a lei, presi una sigaretta e gliela porsi assieme ai fiammiferi. Poi sedetti sulle scale anch’io.

Mi sentivo bene e osservavo la vita muoversi fuori dal portone dell’edificio, con passanti e macchine in fretta meticolosa per raggiungere al più presto il posto di lavoro, o la ragazza, o il dottore o qualsiasi cosa. Osservavo tutto questo. Osservavo amplessi di fumo danzare di fronte alla porta e al mondo fuori alla porta. E ci pensò la megera a rompere l’incantesimo. Con una voce rauca, stanca, affermò: “Che giornata di m***a!” Poi soffiò via il fumo muovendo istericamente le labbra rosse e rugose. I suoi occhi fissavano quel mondo di m***a, ma a differenza dei miei, sembravano poco interessati. Come se là fuori non ci fosse altro che un muro, un muro bianco come il latte.

di Lorenzo Cocciotozzo