Lo zen e l’arte della scrittura

Maggio 25, 2003 in Libri da Stefano Mola

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Ray Bradbury, “Lo zen e l’arte della scrittura”, DeriveApprodi, pp. 136, Euro 12,39

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Se vi cimentate o vi siete cimentati con la scrittura. Se vi interessa dare uno sguardo dietro al sipario per avere un’idea di come nascono i libri. Se volete capire se ci sono ricette per scrivere delle storie, e quali. Se vi interessano le riflessioni degli scrittori sull’atto stesso dello scrivere. Se vi interessa ascoltare qualcuno che racconta il come è il perché è arrivato a fare quello che ha fatto nella sua vita.

Se anche una sola di queste motivazioni vale per voi, allora può essere interessante la lettura di questa raccolta di saggi e articoli che Ray Bradbury (“Cronache marziane”, “Fahrenheit 451” tanto per citare i due titoli più famosi) ha dedicato alla scrittura.

Bradbury ne ha n concetto molto alto e forte. Scrivere significa andare al nocciolo della propria esistenza, riuscire a tirar fuori tutto quello che fa di ognuno di noi un esemplare unico e irripetibile. Nel saggio che conclude il volume e che dà il titolo alla raccolta, dice infatti: “Cosa stiamo cercando di scoprire in questo flusso? La persona insostituibile, di cui non ci sono duplicati. Tu. Come c’era solo uno Shakespeare, un Molière, un Dr. Johnson, così tu sei la materia preziosa, l’uomo singolo, colui che noi tutti democraticamente eleggiamo, ma che, così spesso, si dà per vinto o perde se stesso lungo il cammino. […] C’è solo un tipo di storia, al mondo. La vostra storia” [pag 124 – 125]

Nella frase appena citata, c’è un termine importante, “flusso”. Ovvero, un processo in cui si susseguono e si intrecciano tre fasi: il lavoro, il rilassamento, il non pensare. Prima di tutto il lavoro, ovvero scrivere molto: “All’inizio dovete puntare a un racconto a settimana, cinquantadue racconti all’anno per cinque anni. Dovrete scrivere e mettere da parte o bruciare un mucchio di materiale prima che siate a vostro agio in questo medium. […] La quantità dà esperienza. Solo dall’esperienza può venire la qualità” [pag. 122]

“Non pensare”: il gesto dello scrivere deve diventare naturale come può esserlo quello di un atleta. Il che non significa assenza di consapevolezza, puro istinto: senza la ripetizione che deriva dall’allenamento, anche il gesto dell’atleta non può raggiungere la perfezione: “L’atleta deve ignorare la folla e lasciare che il suo corpo corra per lui” [pag. 123]. Questo implica contemporaneamente il rilassamento e lo scrivere per se stessi, senza aver come bersaglio la fama, o il denaro (può sembrare molto banale e scontato, ma come tutte le cose banali da qualche parte devono pur aver preso la loro verità).

Solo attraverso questo percorso si può far emergere la nostra individuale unicità, e quindi la nostra musa. Che deve però essere nutrita grazie a una “continua rincorsa degli amori, la ricerca di questi amori a dispetto dei bisogni presenti e futuri […] Per nutrire la tua musa, quindi, devi essere sempre stato affamato di vita fin da quando eri bambino” [pag. 60]. Allora, se quello che conta è la passione o la nostra indignazione per il mondo così come è, “nessun argomento, amato profondamente, può essere cattivo per uno scritto” [pag.126].

Bisogna poi fare un piano minuto, uno schema delle proprie storie prima di iniziare a scrivere? “Il plot non è altro che le impronte lasciate sulla neve dai vostri personaggi dopo che essi hanno corso verso le loro incredibili destinazioni. Il plot si osserva meglio dopo il fatto, che prima. Non può precedere l’azione. È la mappa che resta quando un’azione è compiuta”. Mi viene in mente a questo proposito quanto invece ha scritto un altro autore che amo molto, Abraham Yehoshua. È adesso in libreria per Einaudi la trascrizione delle lezioni tenute alla scuola Holden nel 1999 (“Il lettore allo specchio”) da cui estraggo i passi seguenti: “La mia tecnica consiste nell’elaborare prima di tutto una specie di ossatura, in cui scrivo più o meno che cosa succederà. Amos Oz mi prende in giro e mi chiede a che punto sono con le parole crociate, perché lui è attratto dall’ignoto e quando scrive ignora completamente che cosa accadrà in seguito […]. Io invece credo che sia necessario un programma”. Anche Yehoshua però crede nella regolarità: “Io ho bisogno di molta disciplina, non posso aspettare l’ispirazione per scrivere; sono come un impiegato […] Cerco la regolarità anche quando sento di avere molto da raccontare, e allora mi trattengo, non mi lascio trascinare.”

Naturalmente, aggiungo io, quello che conta non è tanto prendere queste riflessioni come precetti. Credo che per chi scrive sia sempre importante e stimolante ascoltare l’esperienza di chi ha provato a fare la stessa cosa. Può aiutare a sentirsi meno soli, oppure ad accendere una luce su un angolo della stanza rimasto sempre in ombra. Ricordando che, per tornare alle parole di Bradbury, “Il fallimento è la rinuncia. Ma voi siete nel mezzo di un processo. Niente fallisce allora, tutto va. Il lavoro è fatto. Se è buono, imparate da lui. Se non è buono, imparate anche di più. Il lavoro è fatto e dentro di voi è una lezione da studiare. Non c’è fallimento, a meno che uno non si fermi” [pag. 123].

Poi, in questo libro c’è molto altro. C’è la storia di come la prima stesura di “Fahrenhei 451” venne fatta su vecchie macchine da scrivere noleggiate a 10 cents la mezz’ora nella biblioteca dell’Università di California. Di come venne pubblicato il suo primo libro. Ma questo forse farete bene ad andarvelo a leggere da soli, altrimenti, che sorprese vi resterebbero?

di Stefano Mola