L’era del porco

Settembre 23, 2005 in Libri da Stefano Mola

Titolo: L’era del porco
Autore: Gianluca Morozzi
Casa editrice: Guanda
Prezzo: € 15,00
Pagine: 294

LIl protagonista di questo romanzo di Gianluca Morozzi (che qualche tempo fa abbiamo anche intervistato dopo aver recensito Dieci cose che ho fatto…) non ci rivela il suo nome di battesimo. Sappiamo soltanto che tutti lo chiamano Lajos, perché è ultra-appassionato di calcio ed è biondo come Lajos Detari calciatore straniero del Bologna degli anni 90. Suo padre ha abbandonato moglie, pargolo e l’insegnamento della filologia romanza all’università per recarsi insieme a giovane e bella studentessa in Bassa California. Da laggiù ha iniziato a sfornare best seller, diventando scrittore famosissimo e osannato. Non si è però mai più fatto sentire, nemmeno con una telefonata.

Anche Lajos vorrebbe fare lo scrittore. Se lo può economicamente permettere proprio grazie all’assegno paterno e a qualche lavoretto precario, tipo commesso in un negozio di fumetti. Scrive il primo libro per impressionare una ragazza. Lei gli dice che è bravo, però poi si mette insieme a un ultrà neonazista del Lecce. Lajos troverà un semisconosciuto e incredibile editore in Uebermensh Belasco, e se ne andrà in giro per improbabili presentazioni in improbabili luoghi dell’Italia. Oltre alla scrittura, percorre altre due strade per la dannazione (definizione sua): suonare in una band amatoriale (gruppi di riferimento: Pearl Jam, Velvet Underground, Pixies, Irish Coffee; repertorio: cover + pezzi autoprodotti) alla perenne ricerca di un bassista. Uno di questi, tra le più felici invenzioni del romanzo, è Billy, un sosia di Paul McCartney. Completano la band la cantante Betty, mangiauomini dalle tette meravigliose e il batterista Lobo, triste, inesorabilmente triste vagamente sosia di Kurt Cobain o Damon Albarn, a seconda della lunghezza dei capelli, innamorato perso senza speranza alcuna della Betty.

Ultimo personaggio dell’universo lajosiano è l’Orrido, un motociclista enorme, un concentrato di vitalismo gioioso e di saggezza umanistica, personaggio decisamente bello, invenzione originale ed equilibrata. Non si sa esattamente cosa faccia l’Orrido, a parte essere il primo supporter dei Sickboys, partecipare a raduni di motociclisti, bere in quantità smodata, rimorchiare ragazze in modalità tematica (un mese solo le sosia dei personaggi dei fumetti, un mese le ciccione, etc).

La terza strada per la dannazione, è Elettra, chitarrista delle Lingueveloci. Non ci sono parole migliori di quelle scritte da David Foster Wallace e apposte da Morozzi a guisa d’epigrafe in apertura per descrivere che cos’è Elettra: Lenore ha la caratteristica di una specie di gioco […] Lenore ti invita tacitamente a giocare un gioco che consiste di oscuri tentativi di scoprire le regole del gioco stesso […] Le regole del gioco sono Lenore, e giocare significa essere giocati. La spina dorsale del romanzo è quindi la storia di un’ossessione, quella di Lajos per Elettra, da cui si dipartono divagazioni laterali di concerti, bevute, presentazioni di libri, sesso occasionale.

Elettra e le parole di Wallace non sono altro che un’estremizzazione di quello che molte ossessioni amorose finiscono per diventare. Per raccontare questa cosa, si possono scegliere diverse strade, molte delle quali portano verso il buio, la malinconia, la depressione, la malattia. Forse si è già capito, ma qui siamo su tutto un altro terreno. Nel descrivere l’ossessione, Morozzi dipinge un murales utilizzando i colori del divertimento e dell’ironia. Uno degli aspetti più notevoli in questo libro è una grande capacità di affabulazione. Si sente un gran gusto di raccontare. Non capita spesso di trovare questo piacere nei libri di oggi, secondo me. A volte c’è una tesi di fondo che si impossessa della storia, oppure ci si sente claustrofobicamente imprigionati in trame asfittiche. Oppure si rischia di cadere nel pericolo opposto, l’ipertrofia da storie fine a se stessa, la ricerca quasi barocca dell’accadimento strano, dell’attorcigliarsi dei destini, dell’improbabilità. In L’era del porco mi sembra che stiamo nel giusto mezzo: qui non c’è barocco, quanto qualcosa di picaresco, del novellare all’italiana, emilianamente carnale, qualcosa che può far pensare a Boccaccio, al Morgante, a Rabelais, aggiornati ai tempi del fumetto, dei b-movies, della musica rock e indie.

Lo so che sembra che mi sia fatto prendere la mano e che sia salito sull’ottovolante dell’iperbole, ma sto cercando in qualche modo di lanciare aggettivi e richiamo che possano in qualche modo rendere l’idea. Se vogliamo tenere i piedi per terra, possiamo dire che è come quando ci sediamo al tavolo di una birreria e qualcuno inizia a raccontarci una storia che fa ridere e che viene voglia che non finisca, qualcosa che non sai se bene se sia inventato oppure no, ma alla fine non te ne importa più di tanto, perché l’unica cosa che conta in quel momento è che la storia scorra dentro di te.

Eppure, il richiamo al romanzo picaresco cavalleresco, non mi sembra del tutto infondato. Una delle scene chiave verso la fine del libro è ambientata a Alcalá de Henares, che come giustamente ricorda l’Orrido, è la città natale di Cervantes. E Cervantes è uno dei più grandiosi descrittori delle ossessioni umane, dell’illusione che pretende di spalmare sul mondo una lucente carta da pacchi, e soprattutto, l’ambizione assurda di appiccicare alle cose un senso coerente a quanto scorre nella nostra testa. Lo scrivere è in fondo una grandiosa e donchisciottesca ricerca di senso, quindi un’operazione di sublimazione. Ma se, in quanto donchisciottesca, fallimentare, perché allora almeno non farla divertendosi?

di Stefano Mola