Il maestro dei santi pallidi

Settembre 7, 2003 in Libri da Stefano Mola

Marco Santagata, “Il maestro dei santi pallidi”, Guanda, pp. 251, Euro 15,00

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Facciamo la conoscenza del protagonista di questo romanzo in un momento curiosamente drammatico: “seduto a cavalcioni di un ramo, con la corda intorno al collo”. Proprio le radici di quell’albero, molti anni prima, facendolo inciampare, hanno provocato un’uscita tangenziale da un percorso umano altrimenti destinato alla circolarità monotona propria di un guardiano di mucche. Il nostro uomo si chiama Cinìn, è un bastardo, forse comperato dagli zingari, il cui vero nome è Gennaro.

Era inciampato scappando, credendo di essere inseguito dal suo padrone per aver abbandonato il pascolo. Invece di guardare le mucche, era andato a guardare gli affreschi alla Riva, dove c’è appunto una delle rare chiese affrescate dell’epoca. Era rimasto incantato. Siamo sull’Appennino modenese, nel Quattrocento. Veniamo a sapere fin dalle prime pagine che Cinìn da bastardo analfabeta guardiano di vacche è diventato un pittore piuttosto affermato. Allora, come mai sta per suicidarsi? E soprattutto, come ha potuto, da questi miseri blocchi di partenza, diventare un artista?

Sarà Cinìn stesso, rimanendo a cavalcioni del ramo con la corda al collo a raccontarcelo in prima persona, alternando amare riflessioni sul suo presente alla rievocazione delle sue vicende. Conosceremo così la bellissima Contessa di Renno (ovvero i guai della poesia e dei romanzi cavallereschi), il Monsignore (ovvero i guai della fede minacciata dall’amore terreno) e soprattutto il personaggio bellissimo e molto umano del pittore Giberto.

Ma forse abbiamo svelato già fin troppo della trama, e non vorremmo sottrarre troppo al piacere della sorpresa e della storia. Perché il tratto distintivo e più felice di questo romanzo sta proprio in questo: trasuda piacere di raccontare. Santagata sembra sinceramente innamorato sia della vicenda sia soprattutto dei personaggi. Non è soltanto per l’argomento che il libro ha qualche traccia d’antico. I brevi sunti in corsivo che introducono i capitoli forse occhieggiano (se l’accostamento non è troppo blasfemo) alle rapide sintesi che aprono le novelle di Boccaccio o del Sacchetti. Un’altra qualità del libro è un’attenzione precisa alla materialità dell’esistenza, fame, colori, odori, oggetti.

Al di là dunque del piacere della trama, Santagata offre lo spunto lieve per una riflessione sul caso e il destino. Alla fine Cinìn riesce o meno a realizzare quanto è avviluppato nel suo DNA? Senza l’incidente ci sarebbe riuscito lo stesso? Apparentemente, tutto sembra legato al filo della casualità, a partire sa quell’inciampare nelle radici di un albero, che in fondo che è poi un imbattersi in alcune piccole ma non per questo meno ambiziose lotte di potere che agitano le colline circostanti. Senza la zavorra della sua umilissima e ignorante origine, sarebbe potuto andare anche più in là? Oppure il suo talento si sarebbe irrimediabilmente incagliato nelle illusioni romanzesche, così come succede in fondo alla Contessa di Renno, cui la cultura non porta in fondo nulla? L’arte può darsi meglio quando scaturisce pura, quando la consapevolezza viene acquistata in seguito, come succede a Cinìn dopo la scoperta della prospettiva?

In fondo, questa è la forza delle storie robuste, ricche di accadimenti e di travagli, un po’ ottocentesche volendo: divertire, e attraverso le vicende e le scelte dei personaggi, far nascere qualche piccola domanda.

Su Infinitestorie una intervista , all’autore.

di Stefano Mola