I pattini taglienti

Febbraio 21, 2006 in Sport da Federico Danesi

La cultura del sospetto è dura da sconfiggere, anche alle Olimpiadi, anche in uno sport come il pattinaggio artistico che pure, per evitare scandali e combines, ha cambiato radicalmente i metri di giudizio.

Il principio fondamentale è uno solo: decidono i giudici, punto e basta. Giusto o sbagliato che sia, chiunque pratichi questo sport lo sa fin da quando pattina per la prima volta. Eppure siamo ancora qui ad ascoltare illazioni e polemiche. Ancora una volta da Barbara Fusar-Poli e Maurizio Margaglio.

Domenica sera avevano fatto quasi tutto alla perfezione. Ma il quasi, a questi livelli, non basta. La caduta è stata penalizzata, così come il mancato completamento della presa finale. L’avessero eseguita perfettamente avrebbe regalato loro tre punti. L’hanno sbagliata e così i tre punti sono stati di detrazione. Semplice, anche per i profani.

Eppure, appena terminata la loro esibizione finale, chiusa tra l’ovazione del pubblico, ecco di nuovo quelle parole buttate lì, per chi deve intendere: “Abbiamo sbagliato e come è giusto abbiamo pagato – ha commentato Barbara -. Forse un po’ troppo, magari qualcuno ha preferito mandarci il più lontano possibile dal podio”.

Eccoli qui, ancora una volta. Quattro anni fa erano arrivati al bronzo e probabilmente meritavano qualcosa in più, ma non certo di vincere. Questa volta no. Perché Navka-Kostomarov sono stati più precisi e convincenti, ma anche le altre due coppie che hanno conquistato il podio sono state migliori della nostra.

Quello che manca, ancora una volta, è il saper perdere. Da un avversario più forte, o comunque più prestante nell’occasione specifica, si può perdere. Anzi, è destino che sia così, è giusto che sia così.

Tra un mese, a Calgary, ci saranno i Mondiali. Li preparino bene, i nostri due eroi. Se saranno i migliori torneranno sul tetto del mondo, com’è stato cinque anni fa ancora in terra canadese, a Vancouver. Guarda caso dove saranno le prossime Olimpiadi. Ma lui avrà 36 anni, lei 38. E forse questo era l’ultimo treno.

di Federico Danesi